È possibile addirittura tracciare un’intera storia – non tanto alternativa – del cinema italiano attraverso il ritratto dei poveri fino a una soglia storica precisa: quella metà degli Anni Settanta (1975) segnata dalla morte di Pier Paolo Pasolini, il massimo cantore nazionale di questo specialissimo canone, massacrato proprio in uno di questi topoi, la spiaggia dell’idroscalo di Ostia, “turpe brughiera suburbana gremita di sozzi relitti” (come lo definì Gianfranco Contini). Si tratta dunque della rappresentazione insistita e della esibizione di un’intera fetta di società oggi rimossa. Dei comportamenti, delle abitudini, degli oggetti e del linguaggio di questa società, innestata in maniera solo apparentemente paradossale nell’epoca del boom, in pieno miracolo economico: “I miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve […] I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano, a quest’altro miracolo balordo: quelli che lo dicono già compiuto e anche gli altri, quelli che affermano che non è vero, ma lasciate fare a noi e il miracolo ve lo montiamo sul serio, noi” (Luciano Bianciardi, La vita agra, 1962).
Tutto questo significa banalmente che la rappresentazione, quando evita la rimozione della realtà, spinge radicalmente l’immaginario culturale. Questa storia particolare inizia, ovviamente, con il Neorealismo: in Roma città aperta (Roberto Rossellini 1946), Ladri di biclette e Umberto D. (Vittorio De Sica 1948 e 1952), la povertà immediatamente postbellica degli spazi urbani – una povertà fatta di macerie materiali che riflettono quelle immateriali e morali – si concentra in dettagli specifici e a volte molto ravvicinate: palazzoni di periferia, androni squallidi, scale interne dissestate, cucinini male in arnese e luride camere ammobiliate.
In una fase successiva, il realismo espressionista di Pasolini – reduce dal successo scandaloso dei due romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) – costruisce integralmente l’immaginario, l’universo narrativo delle “borgate” romane in film come Accattone (1961), Mamma Roma (1962), Uccellacci e uccellini (1965) e nei cortometraggi La ricotta (1963) e La Terra vista dalla Luna (1967). È un mondo simbolico e metaforico fortemente e violentemente ancorato a strade e angoli che prima non esistevano nel territorio della rappresentazione culturale.
Ma, come dimostra già con larghissimo anticipo Vita da cani (1950) di Mario Monicelli e Steno, sarà la commedia italiana a incaricarsi di portare avanti e sviluppare il “tema fondamentale del neorealismo, il commento-denuncia dei mali della società contemporanea” (Masolino D’Amico, Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, 1985).
Così, troviamo Nino Manfredi e Mario Adorf in A cavallo della tigre (Luigi Comencini 1961) alle prese con un’evasione rocambolesca e con l’emergente malessere sociale; Alberto Sordi-Guido Tersilli che all’inizio incerto della sua luminosa carriera ne Il medico della mutua (Luigi Zampa 1968) visita i suoi pazienti addentrandosi con la Lambretta nei viottoli fangosi della baraccopoli; Marcello Mastroianni e Monica Vitti che in Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca (Ettore Scola 1970) si amano perdutamente su una spiaggia sporca e inquinata molto pasoliniana, “una specie di discarica a cielo aperto, cosparsa di ferraglia arrugginita, preservativi, materassi putrescenti, siringhe abbandonate dai tossici, mucchi di piastrelle ed altri scarti di cantieri edili” (Emanuele Trevi, Qualcosa di scritto, 2012).
E ancora, Alberto Sordi e Silvana Mangano che ne Lo scopone scientifico (Luigi Comencini 1972) vivono nella miseria nera ma fisicamente si trasferiscono, grazie al gioco delle carte, nel mondo brillante del sogno economico; Ugo Tognazzi in Romanzo popolare (Mario Monicelli 1974) la cui illusione d’amore con Ornella Muti nella periferia industriale di Milano si infrange contro la durezza della realtà. Il sottoproletariato urbano dell’Italia Anni Settanta trova il suo apice – e insieme il suo canto del cigno – in Brutti sporchi e cattivi (Ettore Scola 1976), vero e proprio manifesto di un’epoca, apologo amarissimo su una realtà sociale altra e parallela rispetto a quella ufficiale, istituzionale.
Di lì a poco, i poveri scompariranno del tutto dagli schermi. Per essere sostituiti dai giovani benestanti e spensierati di Sapore di sale (1983), Yuppies-I giovani di successo e Via Montenapoleone (1986). Ritratti non a caso – nell’epoca nuova che inizia e si configura – proprio dai figli di Stefano Vanzina: in arte, Steno.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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