Top of the Lake. La miniserie di Sundance Channel
Separa, divide, obnubila e uccide. Ma al tempo stesso nasconde e protegge, rivendicando un’ideale dimensione uterina, fluida pazienza materna che si concreta nella vecchia leggenda maori che vuole le sue acque alzarsi e abbassarsi a intervalli regolari. Seguendo un impalpabile ma incalzante battito cardiaco. È il lago senza nome attorno a cui ruotano i misteri di “Top of the Lake”, miniserie lanciata dal Sundance Channel nel 2013.
Prontamente presentata – prima volta nella storia della rassegna – nel corso del festival “di famiglia” e poi lanciata per il mercato europeo grazie alla première offerta dalla Berlinale dell’anno passato; prodotto fresco di due Golden Globe: per la miglior serie, ovviamente, e per la prestazione di Elisabeth Moss come attrice principale.
La firma in calce al progetto Top of the Lake, ambientato e girato in Nuova Zelanda, forte di una co-produzione che vede insieme alla BBC l’impegno di network locali e australiani, è decisamente intrigante: sulla seggiolina del regista si accomoda infatti Jane Campion, a vent’anni esatti dal premio Oscar per il suo indimenticabile Lezioni di piano. Di cui reitera il senso di invincibile malinconia, applicandolo alla trama di un social-thriller dal fascino oscuro, morboso, perverso. Irrisolto in un finale che sì esaurisce il caso portante, ma non manca di lasciare sospesi pesanti interrogativi collaterali.
Chi ha messo incinta Tui, la figlia dodicenne dell’arrogante e violento boss della mala locale? Che fine ha fatto la ragazzina, scomparsa nel nulla dopo esser stata salvata da un (presunto) tentativo di suicidio? Quali orrori si nascondo nel passato di Robin (Elisabeth Moss), la detective che ha preso in carico, e tremendamente a cuore, un caso apparentemente privo di particolare interesse? Chi sono e cosa vogliono le donne disperate che danno vita a una comune femminista in riva al lago, guidate dalla scontrosa GJ (una irresistibile Holly Hunter)?
Le risposte galleggiano sulle acque tetre del lago, specchio annerito che riflette piccoli e grandi orrori quotidiani, in un crescendo di violenza, menzogna e tormento. Rischiarato dalla luce salvifica di una pietas ingenua e struggente, a volte persino ironica nella surreale assurdità di dialoghi convulsi e situazioni deliranti; scontro definitivo tra il Bene incarnato da eroi macilenti e uno stolido Male fine a se stesso. Quadro che sembra trovare la sintesi tra gli obbrobri terrificanti di Stieg Larsson e il manicheismo del Cormac McCarthy più estremo e rurale; sotto l’ideale complice sguardo di David Lynch.
Francesco Sala
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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