Il crollo del Rana Plaza, un anno dopo. L’Occidente aguzzino: moda, mercato, morte
Una storia di sfruttamento sul lavoro, di povertà e di dolore. Un caso che ha scosso il mondo, da una periferia urbana del Bangladesh. In un documentario del New York Times le crude scene dell’incidente e le colpe dell'industria della moda
Giornalismo, politica, economia, diritti civili, industria della moda, cronaca nera. Una storia tragica e complessa, segnata da ferite ancora aperte. È trascorso un anno dal crollo del Rana Plaza, edificio nella periferia di Dacca, in Bangladesh, dove erano concentrate centinaia di micro aziende tessili: un incidente devastante, in un fatale 24 aprile 2013, uccideva 1.138 persone. In un soffio l’enorme struttura pericolante si accasciava su se stessa, come un castello di sabbia, lasciando un deserto di corpi, polvere e macerie.
Lungo e accidentato il percorso per risarcire le famiglie delle vittime e i 2.400 superstiti: feriti, disoccupati, alcuni mutilati, impossibilitati a pagarsi cure mediche e riabilitazione. Dei 40 milioni necessari solo 15 sono giunti a destinazione, nonostante l’accordo siglato tra le aziende, il governo del Bangladesh, i lavoratori, i sindacati nazionali ed internazionali e le ONG. Ma cosa si produceva in quell’alveare dell’orrore? Gli eserciti di operai stipati tra i laboratori fatiscenti sfornavano capi e accessori fashion, in cambio di stipendi da fame. I datori di lavoro bangalesi operavano per conto di grandi marchi internazionali (incluso l’italiano Benetton), allettati dai bassi costi della manodopera asiatica.
Eppure, nonostante l’evidente corresponsabilità, in un quadro di speculazione e scarsa sicurezza sul lavoro, le aziende coinvolte non onorano gli accordi di solidarietà. Da qui l’ondata di proteste e azioni collettive che lo scorso 24 aprile ha invaso il mondo, per tenere alta l’attenzione su un caso tanto estremo quanto emblematico.
In questo documentario del New York Times le cruente immagini scattate da un fotoreporter raccontano i momenti della tragedia, in un montaggio che lascia senza fiato. Sconcertante il link tra le scene di morte in Bangladesh e quelle di routine girate a New York: le etichette griffate e gli abiti scovati in mezzo ai detriti del Rana Plaza, sono gli stessi che trionfano sulle shop bag, nelle boutique e fra le vetrine dei grandi magazzini newyorchesi. Testimonianze agghiaccianti, nel contrasto che unisce e separa due parti opposte di mondo, solcate da una linea continua di morte, sfruttamento, ingiustizia sociale.
Helga Marsala
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