Man Ray (Philadelphia, 1890 – Parigi, 1976) è un artista sfuggente. Poliedrico per materiali, tecniche, strumenti espressivi, come ricorda Janus, curatore della mostra, “non ha passato né cultura alle spalle, ma solo avvenire”.
Si tratta di uno status erratico che intreccia vita e opere: esule per scelta o necessità, sradicato e “senza fissa dimora”, figlio di emigranti, ebreo per parte di madre, trasferito da New York alla patria adottiva parigina e poi costretto a tornare in America dall’invasione nazista, abitante di case-atelier sempre nuove e sempre temporanee, è spinto a elaborare immaginario referenziale e poetica ex nihilo, partendo dalla propria biografia e da ciò che vede attraverso i propri occhi.
L’occhio, registratore e soggetto sensuale, ricorrente nelle sue opere (applicato all’asta di un metronomo, inserito in una boule sans neige oppure in un barattolo di vetro) deve quindi rimanere integro, e non squartato come fecero sensazionalmente i suoi amici surrealisti Dalí e Buñuel. L’occhio di Man Ray vede un mondo fenomenico fatto di oggetti dati, che devono essere ricombinati e risignificati. Vede i bastioni gemelli del castello di Angers e li trasforma in un binocolo. Vede i propri amici, animatori di un milieu impareggiabile, quando Parigi era il centro del mondo culturale, e li immortala – passeggiando per le sale del museo, giochiamo a riconoscere Pablo Picasso, Francis Picabia, Alberto Giacometti, Erik Satie, Jean Cocteau, André Breton…
Tuttavia Man Ray vede e ritrae soprattutto donne e attorno alle donne costruisce la propria parabola esistenziale e artistica. La rassegna di opere edifica una sorta di città delle donne a perdita d’occhio, la cui iconografia spazia dalla posa intensa da diva hollywoodiana al calco idealizzante di paradigmi classici del bello (dalla Venere di Milo a Ingres) all’esplorazione di tutte le possibili varianti del nudo. Celebrità del momento come Juliet e Kiki de Montparnasse oppure modelle desnude in pose esotiche (si veda la rassegna della “mode au Congo”) o vicine alla prossemica della pornografia delle origini, tutte concorrono a creare una sorta di interminabile variazione sul tema dell’attrazione esercitata dall’eterno femminino.
Una fotografia, giustamente divenuta celeberrima, riassume l’immaginario e il metodo di Man Ray: Le violon d’Ingres rappresenta un nudo femminile preso di spalle. È una citazione letterale dagli harem del pittore francese, è un ritratto della musa del momento, Kiki, e un’icona atemporale della bellezza femminile. Al contempo è anche un doppio spaesamento semiologico: è un oggetto il cui senso è rivoluzionato dall’aggiunta di un segno (la doppia effe fa di una schiena un violino) e un gioco di parole beffardo (“violon d’Ingres” è un modo per indicare un passatempo).
E c’è spazio anche per una donna sui generis, ovvero Rrose Sélavy, alter ego crossdesser di Marchel Duchamp. Eros, c’est la vie.
Alessandro Ronchi
dal 26 marzo al 19 giugno 2011
Man Ray
a cura di Guido Comis, Marcio Franciolli e Janus
Museo d’Arte
Riva Antonio Caccia, 5 – 6900 Lugano
Orario: da martedì a domenica ore 10-18; venerdì ore 10-21
Ingresso: intero CHF 12; ridotto CHF 8
Catalogo Skira
Info: +41 0588667214; [email protected]; www.mda.lugano.ch
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati