Nostalgia del futuro. Da Robert Zemeckis a oggi
Hill Valley, quella di “Ritorno al futuro”, è il nostro destino. È il luogo a cui sempre torniamo, la casa verso cui tendiamo. A partire dalla trilogia di Robert Zemeckis, un paragone e una riflessione su come in Italia abbiamo guardato agli Anni Sessanta. Con in bocca un certo “sapore di sale”…
Vale sempre la pena di ricordare che la cittadina che funziona da fulcro spaziale dei viaggi temporali di Marty McFly si modifica, si contorce e si distorce a seconda degli interventi e dei movimenti del protagonista. Il punto di partenza, il 1985 del primo film, è una normalità non-normale, se lo guardiamo bene, con attenzione, retrospettivamente e scivolando sui piani: è esso stesso una distopia, un luogo spaziotemporale abitato dal disagio della famiglia del ragazzo (sono tutti falliti, affannati, infelici: poveri) e tutto il film è un tentativo di aggiustare questa condizione attraverso il modulo fantascientifico del viaggio nel tempo. Dal punto di vista neoliberistico di Robert Zemeckis e dell’intera narrazione, ciò che va ripristinato al centro esatto degli Anni Ottanta è il benessere: la felicità coincide a tutti gli effetti con la felicità economica.
Questo ripristino può avere luogo solo attraverso un’impresa e un’esperienza cognitiva proiettata non in avanti, ma indietro: il benessere è una riproposizione dell’archetipo del benessere, quegli Anni Cinquanta popolati di Cadillac, jeans e invenzione della gioventù che stabiliscono “lo standard del mondo”, come recitava il popolare slogan pubblicitario delle auto statunitensi, un condensato design di orgogliosi e freschi ricordi bellici (gli alettoni e le granate dei caccia) e di immaginazione futuristica.
Questo universo, insieme sociale e narrativo, integralmente dominato dalla nozione di ricchezza e felicità materiale, vive e prospera a patto dell’espulsione totale del disagio collettivo. Esattamente su questa assenza lavorano d’altra parte scrittori come Richard Yates (Revolutionary Road, 1961; Undici solitudini, 1962), che si incaricano di esplorare in modo solitario il “lato oscuro” del boom americano: la paranoia e il senso di alienazione che esistono dietro e dentro e sotto le casette tutte uguali e tutte in fila nei sobborghi residenziali, i prati perfettamente tagliati, le famigliole sorridenti e i balli di fine anno con gli alcolici nella tasca della giacca e le pomiciate furtive nelle stesse automobili aerodinamiche.
Il recupero nostalgico di questo universo, la sua riproposizione, è la precondizione affinché il percorso di Ritorno al futuro giunga a destinazione: George non dovrà diventare solo uno scrittore di fantascienza, ma uno scrittore di fantascienza di successo, per poter comprare il fuoristrada nero e una vita confortevole a suo figlio. E lo stesso Marty, nel 2015 della Parte seconda (a proposito: è già quasi arrivato, e non ci sono macchine volanti in giro…) sarà sempre e comunque minacciato dallo spettro del fallimento. Così, sulle dimensioni di ieri e di domani si stende l’ombra di un presente che continua a esserci da trent’anni, di un presente che si percepisce e si fa percepire come onnipresente. E di un’ideologia potentissima nella misura in cui ha dichiarato e ratificato l’estinzione di tutte le (altre) ideologie.
Se la radice della parola nostalgia, come ricorda Don Draper in Mad Men, è il dolore per una vecchia ferita (che costantemente si riapre), questi ritorni ossessivi hanno lo scopo di trasformare il passato tanto quanto il futuro: perché la nostalgia è sempre un’esclusione di qualcosa, e una compressione inevitabile del suo oggetto. Non c’è dunque solo l’elemento del rifugio, dell’evasione, dell’idealizzazione; c’è qualcosa di più profondo: la nostalgia è la fruizione del passato come se fosse un prodotto qualsiasi. La nostalgia è il consumo del passato.
È esattamente quello che succede, due anni prima del film di Zemeckis, con Sapore di sale (1983) di Carlo Vanzina: lì, i primi Anni Sessanta (i secondi infatti sono già troppo scomodi e respingenti) vengono compressi e appiattiti nella dimensione di un’estate simbolica a Forte dei Marmi e ridotti a merce culturale (canzoni, look, icone, eventi) . Ciò che vediamo sono degli Anni Sessanta adattati agli Ottanta, attraverso l’innesto di linguaggi, tic e figure già auratiche (Jerry Calà, Christian De Sica), che richiamano e portano con sé lo stesso intero mondo culturale che di lì a poco eserciterà un’egemonia sui modelli e sulle abitudini delle giovani generazioni italiane. In Italia, questa operazione di “recupero” avviene solo e soltanto al prezzo della totale rimozione del “decennio lungo” che va dalla fine dei Sessanta al 1980: anzi, questa rimozione è l’oggetto reale e unico di quel recupero in forma di riduzione, facilmente commestibile e addomesticata. Quelli di Sapore di sale (1 e 2) non sono semplicemente gli Anni Sessanta visti attraverso gli Anni Ottanta: sono gli Anni Sessanta come gli Anni Ottanta vorrebbero che fossero (e che fossero stati), dunque ricostruiti in base a questo principio.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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