Città d’arte di nuova generazione. L’esempio di Rovigo e Forlì
I centri espositivi italiani sorti negli ultimi due decenni sono innumerevoli. La volontà di ritagliarsi uno spazio nel panorama culturale della Penisola, e ancor più di intercettare il consistente flusso turistico legato all’esplosione della “mostrite”, è stata alle origini della proliferazione. E accanto alle mostre sono nati i “monstre”, ma anche alcune best practice.
La proliferazione di centri espositivi ha riguardato città grandi e (soprattutto) piccole, distribuite in tutto il Paese, e in particolare in un Nord-Est allargato che comprende Lombardia ed Emilia-Romagna. Alcuni di questi centri sono durati l’espace d’un matin (è mancato il sostegno della città, oppure rivolgimenti politici ne hanno decretato la prematura fine), altri hanno proseguito il loro cammino fino a oggi.
Particolarmente interessante l’esempio di quelle sedi, teatro di “grandi mostre”, che hanno decretato l’ingresso nell’olimpo delle città d’arte e delle mete culturali di città che prima non ne facevano assolutamente parte. È il caso di Palazzo Roverella a Rovigo, che propone rassegne incentrate soprattutto sull’arte fra Otto e Novecento, privilegiando i movimenti più che le singole figure e ponendo l’accento sulle connessioni fra artisti italiani e stranieri, come avviene nell’esposizione attualmente in corso, L’ossessione nordica.
Alla Rovigo di Palazzo Roverella si può accostare la poco distante Forlì dei Musei di San Domenico. Significative le tangenze tra le due sedi espositive: la collocazione in edifici storici, la convivenza tra raccolte civiche d’arte antica e mostre temporanee, la gestione demandata dal Comune alla fondazione della locale Cassa di Risparmio, l’anno di avvio delle attività (2006) e persino il periodo in cui si tengono le mostre di maggior richiamo (la prima metà dell’anno). In entrambi i casi si ha a che fare con “grandi mostre” (per le dimensioni, l’appeal degli argomenti trattati, l’entità degli investimenti e l’insistenza del battage pubblicitario), ma non con inutili parate di capolavori. Goldin, per intenderci, da queste parti non ha mai messo piede. Finora.
Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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