Laura Mattioli, storica dell’arte e collezionista storica. Ci racconti perché hai deciso di aprire un centro d’arte moderna italiana a New York?
Ho deciso di creare uno spazio di ricerca che sia capace di dare origine a una maggiore coscienza e attenzione dell’arte moderna italiana anche in connessione con l’eredità e gli sviluppi che ha saputo creare.
Il CIMA è nato per amore della Storia, quindi?
E per amore della ricerca e della verità, aggiungiamo.
Perché a New York?
New York è la città giusta per questa iniziativa in quanto grande catalizzatore di energia e persone. È il posto dove ancora tutto il mondo s’incontra.
Hai fatto tutto da sola?
Sì, perché ho un caratteraccio [ride, N.d.R.].
Qual è stato lo scatto che ti ha fatto decidere di cominciare quest’avventura?
La consapevolezza che l’arte italiana del Novecento fuori dal nostro Paese sia scarsamente conosciuta. Esiste una struttura molto rigida di pensiero nella storiografia. Dall’Impressionismo in poi, l’idea madre e inconfutabile è che tutto parta da Parigi, dall’esperienza francese. Tutto quello che è successo in seguito in Europa è una sua derivazione, una conseguenza. Il CIMA vuole mettere in discussione questa forzata e distorta lettura del nostro passato.
In che modo?
Creando nuovi interrogativi. Permettendo agli storici e teorici dell’arte che frequentano il nostro centro di sostare a lungo di fronte alle opere esposte e – perché no? – di viverci dentro per un breve periodo. L’osservazione continua e profonda di un’opera permette il naturale scaturire di riflessioni e interrogativi. C’è un vantaggio cruciale che hanno i collezionisti rispetto a chi studia la storia dell’arte soltanto attraverso musei e cataloghi: la vicinanza quotidiana con le opere. Aprendo questo luogo, ho scelto di condividere il privilegio.
A proposito delle forzate e distorte letture che la storia dell’arte ha prodotto, ci fa qualche esempio concreto?
Tutti conoscono il Surrealismo. Che cosa ha fatto de Chirico per il pre-surrealismo è un argomento trascuratissimo che non conosce quasi nessuno. Oppure, prendi l’opera The Bycicle Race di Lyonel Feininger: ricordo uno statement che diceva che il quadro era di ispirazione picassiana. Feci un salto perché Picasso non aveva mai dipinto un ciclista. Quel quadro, quel soggetto deriva da Boccioni, dai futuristi, non certo da Picasso.
Cubismo e Futurismo, sorelle dell’arte del secolo scorso dove il movimento italiano fa da cenerentola.
Il Cubismo fu un’avanguardia elitaria. Dipingevano per pochi eletti che potevano capire quello che facevano. Non erano interessati ad alcun rapporto con il pubblico. Il Futurismo, invece, nacque con l’intenzione di cambiare il gusto della gente. Iniziò con un manifesto. I suoi promotori erano motivati dall’intenzione di essere presenti nell’arte, nella politica e quindi nell’opinione pubblica.
Cent’anni dopo riconosciamo il contrario: Picasso e il Cubismo sono conosciuti da una larghissima fetta della società, mentre il Futurismo e i suoi maggiori esponenti sono apprezzati soltanto da una ristretta élite.
La percezione attuale è derivata da una risposta di rifiuto fortissima del fascismo e quindi dell’arte prodotta durante gli anni della dittatura mussoliniana. Accendere un riflettore sul Futurismo vuol dire toccare una verità rivelata, rivoltare il modo in cui questo movimento è stato studiato e catalogato fino ad oggi.
Laura Mattioli e il CIMA hanno l’ambizione di aggiungere nuove pagine di storia dell’arte sull’argomento?
Molto di più. Vogliamo cambiare sguardo, sollevare nuove questioni e quindi risposte, permettere una visione più libera e, quando serve, più provocatoria.
Vogliamo dire più futurista?
E diciamolo.
Alessandro Berni
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