Eterno Presente. Da Paolo Sorrentino a Slavoj Zizek
Fra i tanti temi affrontati dalla “Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino c’è anche quello, assai felliniano, della Religione. Ridotta a fondale scenografico, il monumento di fede più importante della cristianità rappresenta ormai solo un bell’oggetto per immortalare lo skyline della Città Eterna, che tanto eterna non sembra più.
Alla convinzione nell’eternità storica, o alla fede in quella ultraterrena, si va sostituendo, nelle pratiche e nell’animo dei contemporanei, la credenza in una intemporalità perennemente sospesa, nella convinzione che si possa “incantare il tempo”.
Da qualche parte Slavoj Žižek ricorda che la profezia benjaminiana di una “dialettica in sospeso” (“Dialektik im Stillstand”) si è realizzata storicamente in quelle società, come la Cuba di Castro, dove il divenire storico pare interrotto e bloccato, e la vita sembra essersi cristallizzata in un eterno 1° gennaio 1959, primo giorno della Rivoluzione. A questa osservazione si potrebbe aggiungere che, lungi dall’essere un’anomalia, quella cubana non è che l’altra faccia di una situazione molto evidente anche nel resto del mondo “capitalista”. Anche in quest’ultimo, perennemente sottoposto a “permanenti rivoluzioni” sociali, culturali e tecnologiche, il soggetto sviluppa una concezione temporale (pseudo) nietzschiana, dove tutto si eguaglia in un presente assoluto.
In una memorabile scena del film di Sorrentino, una composta folla di fedeli si affida alle cure sublimi del chirurgo plastico con una dedizione e una deferenza che certo non dedicherebbe agli esercizi spirituali, proprio perché spera che colui (ben più di questi ultimi) sia in grado di “fermare il Tempo” – e, cosa notevole, tra gli adepti c’è anche una suora.
Questa dialettica dell’immobilità, però, lungi dall’essere monolitica, si presenta piuttosto come la sovrapposizione di due facce in apparenza antitetiche. Il cardinale che tiene la sua conferenza stampa davanti al classico tableau intarsiato di loghi può fare l’effetto di un errore, di una incongruenza iconografica, quasi che avesse preso per sbaglio il posto del tipico allenatore di calcio o del pilota di Formula Uno che non può comparire in pubblico se non attorniato dalla salmodiante liturgia dei propri sponsor, ma di fatto, la sua stessa presenza cambia il senso laico di quelle scritte.
Il processo di mondanizzazione in cui la religione viene trascinata genera un effetto collaterale per cui, da parte sua, l’universo mondano si sublima e tocca il vertice dell’estasi. L’ipnotico ghirigoro di brand, tutti diversi, ma tutti della stessa dimensione, prende un che di ecclesiastico, si irraggia come un’aureola misticheggiante alle spalle dell’alto prelato. La croce cattolica, che verosimilmente costui porta legata alla catena che gli pende sul petto, da simbolo millenario rischia di diventare un ennesimo brand in compagnia degli altri. Si registra così un’inattesa inversione: il mondo profano delle merci si ammanta di simboli, che vorrebbero accedere a una qualche sacralità, mentre i simboli del mondo sacro trascolorano in marchio mercantile (da cui il bizzarro successo dei gioielli con tanto di preghiera incorporata come la linea TUUM).
Quando, nel 1989, Ashley Bickerton realizzò il suo famoso Tormented self-Portrait, dove, al posto dei tratti del suo viso, aveva inserito il rosario delle marche di cui si serviva abitualmente, la sua sembrò una provocazione post-pop. In realtà, con il telepatico sesto senso proprio dei grandi artisti, aveva semplicemente “dipinto” un futuro che è diventato parte del nostro panorama visivo e mentale, nell’eterno presente di oggi.
testo e foto di
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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