A Bolzano il Cubo Garutti diventa Hotel Cubo. D’artista
Si apre il sipario per gli abitanti del quartiere Don Bosco di Bolzano. Una camera d’albergo allestita nel Cubo Garutti. Arte pubblica e teatro. Una performance collettiva che si estende a ospiti, strade e abitanti. Ne parlano Frida Carazzato e Hannes Egger.
Il Piccolo Museion è stato realizzato nel 2003 da Alberto Garutti. Esiste una totale libertà di movimento rispetto al suo utilizzo? Per intervenire con trasformazioni riguardanti anche la funzione dello spazio, come nel caso di Hotel Cubo, è necessario il suo consenso?
Frida Carazzato: Per ogni progetto e per tutta la programmazione espositiva che pensiamo per il Cubo Garutti, l’artista viene sempre informato. Non si tratta di chiedere veramente il consenso, piuttosto di condividere idee e proposte confrontandoci ogni volta con le dinamiche che possono scaturire e come ogni progetto si relaziona all’idea di base che ha generato il Cubo Garutti. Il Cubo è un’opera, ma è anche un luogo, perché è una stanza di un museo e per tutti i progetti si ragiona sempre pensando allo spazio espositivo come contenitore, come piattaforma, come dispositivo e come dono.
Dapprima il nome doveva essere Hotel Experience: cosa o chi ha determinato il cambiamento in Hotel Cubo?
F. C.: Il titolo Hotel Cubo ci sembrava più coerente rispetto al Cubo stesso, nel senso che è proprio il Cubo Garutti che si trasforma in un hotel, sia nella sua architettura sia come spazio, il quale, oltre a mostrare, accoglie.
Quale ruolo ha Museion in questo progetto?
F. C.: La partecipazione di Museion è totale. Dal momento in cui è stato concepito il progetto alla sua messa in atto, alla sua prosecuzione. Non è solo il Cubo che accoglie, ma Museion stesso: basti pensare che il personale di Museion è coinvolto anche nelle operazioni di check-in e check-out. Anzi, questa operazione mi ha fatto molto pensare alla pratica curatoriale e alla figura del curatore che accoglie, registra, scambia impressioni, propone.
Gestisci tre diversi spazi all’interno di Museion: la project room, la facciata mediale e il Cubo Garutti. Hanno tutti in comune il fatto di essere luoghi di passaggio o di confine in cui il dentro e il fuori si mescolano continuamente. Qual è la peculiarità del Cubo Garutti che influenza maggiormente le scelte curatoriali?
F. C.: Il fatto che sia un progetto di arte pubblica e che è al contempo parte di un museo. Cerco sempre di pensare a progetti che possano riferirsi all’attività e alla ricerca di Museion in modo che il Cubo Garutti non sia qualcosa di separato dal “grande cubo” di via Dante, ma al contrario possa rafforzare e completare il progetto Museion. Per questo motivo è anche una scelta curatoriale quella di pensare la programmazione in stretto contatto con il dipartimento educativo di Museion e il reparto Collezione, e naturalmente con la direzione.
Quanto è importante l’interazione con il contesto in questo specifico progetto?
F. C.: Questo aspetto è fondamentale, anzi è il motivo stesso dell’esistenza del Cubo Garutti, lo dice lo stesso Alberto Garutti nella didascalia: “Quest’opera è dedicata a tutti quelli che passando di qui, anche per un solo istante, la guarderanno”. Quindi è un’opera basata proprio sull’interazione del pubblico. A dieci anni dalla sua nascita, numerosi progetti si sono susseguiti e questo ha fatto crescere non solo il progetto di Garutti stesso, ma anche la sensibilità del quartiere rispetto al Cubo.
Cosa significa collocare un hotel nel quartiere Don Bosco?
F. C.: Significa non attribuire gerarchie o categorie, significa non considerare un luogo o una zona meno interessante di un’altra. Significa la volontà di guardare le cose da un altro punto di vista, credere nel confronto e nello scambio e attivare tutto questo tramite un progetto artistico. A volte occorrono piccole provocazioni, o meglio idee che sfiorano l’utopia. Poi ti accorgi come può essere semplice attivare nuove dinamiche proprio grazie a queste stesse idee considerate all’inizio utopiche.
L’indagine sui luoghi e sui confini, la riscoperta degli aspetti storici, la ricerca sull’identità sono elementi riscontrabili in diversi tuoi progetti, tra cui See You, presentato nel 2011 in occasione della Biennale di Venezia. Cosa cambia con Hotel Cubo?
Hannes Egger: Con Hotel Cubo mi sono dedicato in modo molto profondo a un quartiere urbano. In tanti altri miei progetti ho lavorato in luoghi rurali, di montagna ecc. Una cosa assolutamente nuova per me e che ho inserito in questo progetto è l’audioguida. È la prima volta che uso questo mezzo per esprimermi.
Anche allora eri un artista ospite, in quel caso di Markus Schinwald all’interno del Padiglione austriaco. Qui in un certo senso sei ospite di Garutti. Cosa significa per te collaborare?
H. E.: L’uomo è un essere sociale, credo nella forza della collaborazione. In questo progetto hanno collaborato tante persone, per esempio Frida Carazzato, Linda Martini dell’associazione La Rotonda, i ragazzi di “le petit bar”, le persone che mi hanno parlato del quartiere, il signore delle pulizie ecc.
Quest’intervista si pone a metà cammino, quando il progetto è già stato “vissuto”. Qual è stata la reazione da parte delle persone che hanno pernottato all’interno dell’Hotel Cubo?
H. E.: Abbiamo avuto tante prenotazioni e non ce lo aspettavamo. Alle persone interessa il progetto, vogliono fare l’esperienza di stare dentro il Cubo e vedere il quartiere. Circa la metà delle persone che finora hanno pernottato al Cubo sono dell’Alto Adige e l’altra metà da fuori Regione. Fino ad ora il feedback è sempre stato positivo, come testimonia il “guestbook” di Hotel Cubo.
Quali testimonianze, documentazioni rimarranno?
H. E.: Il guestbook, le e-mail di feedback, le foto inviate a noi e soprattutto il traffico e-mail prima del pernottamento: tutto rimane come documentazione. Io raccolgo queste testimonianze, per me sono una cosa centrale perché esprimono il processo e l’esperienza. Forse in un secondo momento verranno anche pubblicate.
La dimensione teatrale è sottolineata anche dall’utilizzo delle tende per oscurare le vetrate del Cubo. L’ospite diventa un performer. Un’opera d’arte dentro un’altra opera d’arte. Quanto la tua arte ha a che fare con la spontaneità e l’improvvisazione e quanta parte invece viene programmata?
H. E.: Programmata è la cornice, la piattaforma. Parte tutto da un’idea che cerco di realizzare senza perderla nel corso del processo. I miei lavori sono spesso delle piattaforme, quelle devono essere programmate bene, con un’idea e un’estetica precisa: funzionano solo se sono molto chiare. Tutto il resto è spontaneo, perché in questa cornice, o meglio su questa piattaforma, possono accadere diverse cose e inaspettate. La piattaforma deve garantire questa libertà, deve offrire questo servizio di possibile spontaneità.
La dimensione narrativa diviene particolarmente importante in questo lavoro, forse più che nei tuoi progetti precedenti. Un continuo intrecciarsi di presente, passato (guardato nostalgicamente) e futuro. Ti sei posto come un raccoglitore e un narratore di storie? Quale di queste ha segnato maggiormente la tua esperienza?
H. E.: I miei lavori partono spesso da narrazioni. Mi piace ascoltare. Accolgo con l’orecchio, è forse il senso più attento che possiedo. Due narrazioni mi hanno colpito soprattutto. Una è quella di Rino, che ha passato nel dopoguerra la sua gioventù in una delle casette semirurali. Negli Anni Settanta si è sposato e si è trasferito in un altro quartiere di Bolzano. Essendo in pensione, è ritornato. Ha preso un appartamento dell’edilizia popolare in una casa nuova. La cosa particolare è che questa casa si trova neanche a 150 metri da quella di una volta. Ma il quartiere è ormai un altro. Sui ventidue ettari dove sorgevano le casette semirurali, ora si trovano case molto più alte. Lui in qualche modo è ritornato alle sue radici, ma in un mondo completamente diverso. Penso spesso a lui e mi incuriosisce come vive questa trasformazione.
Un altro racconto forte è quello di Elisa. Lei ha circa 35 anni. Suo nonno abita ancora oggi nella zona e lei da bambina era spessissimo nel quartiere, ma non è certa di ricordarsi di quelle casette. Ha raccontato che non sa se le immagini che le vengono in testa sono i suoi ricordi personali o se si tratta di quelle provenienti dalle foto e dalle testimonianze che ha visto negli ultimi anni, parlando spesso anche in modo romantico delle “semirurali”. Il discorso che ha fatto Elisa lo considero il più teorico che ho sentito, pone la domanda su come funzioni la memoria. La memoria come una costruzione collettiva, volendo anche guidata.
Il tuo progetto si pone a metà tra arte pubblica e performance. Per quanto riguarda questi due ambiti, hai artisti di riferimento?
H. E.: Mi ispira tanto il lavoro di Jochen Gerz. Secondo me è un grande artista, forse sottovalutato. Ma la sua ricerca è particolare e è ha una sua forte identità.
Antonella Palladino
Bolzano // fino al 29 giugno 2014
Hannes Egger – Hotel Cubo
a cura di Frida Carazzato
CUBO GARUTTI
Via Sassari 17
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