Dialoghi di Estetica. Parola a Angela Ida De Benedictis
Angela Ida De Benedictis è curatore scientifico presso la Paul Sacher Stiftung di Basilea. È stata ricercatrice presso l’Università di Pavia e ha ricoperto gli incarichi di direttore scientifico del Centro Studi Luciano Berio e di direttore del comitato scientifico dell'Archivio Luigi Nono. Ha pubblicato, oltre a numerosi saggi di teoria e analisi su vari aspetti della musica del XX secolo, un volume su Claudio Abbado e varie corrispondenze di compositori (Nono, Lachenmann, Maderna ecc.), le prime edizioni degli scritti di Luigi Nono e Luciano Berio, su cui si sofferma questo nuovo “Dialogo di Estetica”.
Nell’introduzione agli Scritti sulla musica (Einaudi 2013) di Luciano Berio, Giorgio Pestelli scrive: “Se si volesse proporre un tema generale, se non unificante […] si potrebbe pensare a una serie continua di ‘Dialoghi fra pensiero musicale e realtà sonora’”. Sei d’accordo? E in tal caso, quale sarebbe precisamente lo spazio tra “pensiero musicale” e “realtà sonora” che questi dialoghi andrebbero a colmare?
Temo di poter rispondere a questa domanda solo parzialmente… Di certo si può affermare che tutti gli scritti di Berio siano un dialogo tra un “pensiero musicale” (ossia il pensiero di un compositore che ancora deve produrre, fare, scrivere musica) e la realtà sonora che lo circonda nel presente o, di riflesso, come retaggio del passato. Molti scritti di Berio sono per il compositore una sorta di “strumento” per esercitare il suo pensiero musicale: non sono solo mirati a una sfera teorica, ma riflettono un’attitudine o costituiscono un’occasione per mettere in pratica un “fare”.
Sono dunque scritti che definiresti preliminari rispetto a un fare?
Possono essere sia preliminari rispetto a un fare, sia una forma di riflessione su qualcosa di già fatto, o ancora, semplicemente, meditazioni astratte su una tematica compositiva o su vari desiderata, che magari possono anche non concretizzarsi in un “fare” musicale. Il “dialogo tra sé e sé” (per parafrasare il titolo di un testo presente nella raccolta, Dialogo fra te e me), il concetto di scrittura come forma di rappresentazione dialogica di un pensiero musicale, è senz’altro implicito nei singoli testi. Ognuno può essere visto come la rappresentazione (teorica) del pensiero musicale di un compositore (di un artista che scrive musica), e questo anche quando Berio parla di altri compositori.
Pestelli definisce questa raccolta di saggi “una somma di idee, dati e testimonianze di imponente portata, indispensabile non solo per conoscere Berio […] ma anche a mettere sul tavolo punti fermi e svolte delle vicende musicali nella seconda metà del Novecento”. Credi che un semplice ma attento amatore di musica o di arte in generale che legga questo libro possa davvero portare a casa dei “punti fermi” sulle vicende della seconda metà del Novecento in musica?
Sicuramente sì, ma sempre con la consapevolezza che si stanno leggendo le vicende musicali dal punto di osservazione personale di Berio. Un punto di osservazione che è ovviamente privilegiato. Dodecafonia, serialismo, musica elettronica, indeterminazione, collage, postmodernismo: Berio ha vissuto e osservato tutte queste correnti o nuove tendenze/possibilità della musica. Nel parlare o esprimersi verbalmente su queste tendenze, Berio filtra la realtà con la sua personale attitudine compositiva e con un pensiero che, occorre ricordarlo, si nutre della forza teorica di altre riflessioni teoriche proprie a compositori a lui vicini (si pensi per esempio a Henri Pousseur, solo per citarne uno).
Questo significa che non bisogna cercare in questi scritti una sorta di “verità” sulle tendenze compositive della seconda metà del Novecento: piuttosto, quello che il volume regala ai lettori è una delle letture possibili che uno dei più grandi compositori del Novecento ha fatto su quelle realtà musicali. Su alcune svolte storiche o dati musicali coevi, per esempio, leggendo gli scritti di autori come Stockhausen, Boulez o Nono, avremmo visioni completamente diverse rispetto a quella di Berio. Di certo questo volume colma un vuoto importante nella pubblicistica musicologica: ora è possibile confrontare in maniera comparativa le visioni dei vari compositori.
In che modo hai deciso di sistematizzare e disporre una mole così vasta di materiale?
Si è trattata di una scelta molto difficile. Come ho scritto a più riprese nella mia Prefazione al volume, non si tratta di una raccolta completa. Selezionare i testi, decidere quali pubblicare e quali non inserire nella raccolta, così come stabilire un ordine interno, è stato molto impegnativo. Berio ha una penna incisiva, una scrittura bellissima, a volte sembra addirittura di essere al cospetto di un letterato piuttosto che di un musicista. Scartare alcuni scritti perché il contenuto era ridondante e ripetitivo rispetto ad altri testi o perché considerati “di occasione” è stato difficile.
La scelta infine ha privilegiato circa un centinaio di scritti che vanno dai primi Anni Cinquanta al 2003, anno della morte del compositore. Ho deciso di non seguire un ordine cronologico, ma di trovare delle “attitudini mentali” che hanno condizionato o provocato la scrittura. Non ho voluto procedere isolando dei blocchi tematici (tipo “il Teatro”, “il rapporto con la Storia” ecc.), perché mi sarebbe sembrata una forzatura: questo tipo di scelta, a mio vedere, condiziona sempre il lettore nel suo approccio al testo. Ho preferito piuttosto concentrarmi, come dicevo, su “attitudini mentali”, oppure “attitudini pratiche”, antologizzando i testi in macrosezioni nominate Riflettere, Fare, Dedicare, Discutere.
Quali sono le ragioni di una scelta del genere?
Il percorso che mi ha condotto a questa scelta è, a pensarci a posteriori, semplice: sono un compositore e “faccio”, nel senso che scrivo su quello che sto facendo; “rifletto”, e dunque scrivo perché riflettendo per iscritto mi si chiariscono delle idee; “mi ricordo di”, “penso a” e quindi scrivo perché ho il desiderio di rendere omaggio a chi mi ha donato qualcosa (con la sua musica, con la sua arte in generale, con la sua vicinanza umana). I macrocapitoli riflettono dunque quelle che sono le attitudini che hanno “provocato” la scrittura. Il crinale tra una sezione o l’altra, o la scelta di collocare un testo in una sezione piuttosto che in un’altra, è a volte indistinguibile. A volte, inoltre, gli stessi argomenti sono ripresi a distanza di tempo e riletti dall’autore con prospettive differenti (di qui la necessità di aprire un’ulteriore sezione finale, l’Appendice).
Eppure, nonostante le difficoltà e forse l’arbitrarietà delle mie scelte, ogni volta che apro il libro stampato mi convinco sempre più che sia stata la scelta giusta: un semplice ordine cronologico avrebbe rispettato una scansione temporale precisa, ma di certo non il “tempo del pensiero” che spesso è invece erratico e non ingabbiabile in griglie temporali precise.
L’Appendice contiene alcuni testi di Berio che, rimasti inediti, erano archiviati presso la Paul Sacher Stiftung di Basilea, dove tu ora lavori. Puoi raccontarci nel dettaglio la genesi di questa “riscoperta”?
Usi due parole che, confesso, mi stanno strette: “inedito” e “riscoperta”… Semplicemente, alcuni di questi testi, confluiti in Appendice, non sono a tutt’oggi ben interpretabili in quanto a occasione di scrittura e destinazione editoriale. Ad ogni modo: il lettore deve immaginare il libro, Appendice compresa, come la costruzione di una casa composta di varie “stanze” (e per questa metafora, come è evidente, sono debitrice allo stesso Berio!). Quello che ho cercato di fare, costruendo questo edificio di testi, è stato arredare i vari capitoli intendendoli appunto come “stanze”.
L’Appendice, in questo grande edificio, è una specie di cantina, il posto nel quale si mette tutto ciò che nelle stanze non trova posto, e che spesso non ha una valenza solo affettiva. I veri inediti, nel volume, sono in realtà pochi, un po’ perché approfondendo le ricerche ho ritrovato diverse fonti editoriali (sconosciute o semplicemente cadute nell’oblio), un po’ perché, refrattaria come sono alla moda dell’“inedito-a-tutti-i-costi”, ho reputato non contaminare i vari testi con i “veri” inediti, conservati in forma soprattutto frammentaria, ai quali magari si consacrerà un altro intero volume…
Come mai questi materiali sono conservati a Basilea?
La Paul Sacher Stiftung è una fondazione che custodisce i fondi di diversi compositori, da Stravinskij a Webern a Varèse a Berio ecc. (in tutto sono più di cento). L’ultimo fondo giunto a Basilea è quello di Aldo Clementi, sul quale sto lavorando proprio in questo periodo. È stato lo stesso Berio che decise, negli Anni Ottanta, di lasciare alla Fondazione creata da Paul Sacher tutto il proprio fondo manoscritto e sonoro.
Vorrei però deviare la tua domanda su un’altra problematica e aprire una parentesi su un malinteso che spesso si cela nei cosiddetti “studi d’archivio”. Questo libro si è certamente beneficiato di tutti i materiali e i testi di Berio conservati presso la Fondazione Sacher. L’errore però che spesso si fa, è quello di pensare che un archivio conservi tutto: in realtà, custodisce perlopiù quello che il compositore ha reputato degno di essere conservato. È per questo che, personalmente, sono così cauta sulla questione degli “inediti”. Quando, in un Fondo come quello beriano, si trova un testo che sembra non essere stato pubblicato, prima di urlare all’inedito bisogna capire se il compositore ha conservato tra le sue carte solo una versione precedente alla stampa o se, magari, la versione edita di quell’esemplare non sia caduta semplicemente nell’oblio (e il lettore può trovare in questo libro almeno tre casi del genere, di testi dati per inediti e invece editi, anche a più riprese, durante la vita dell’autore).
Ti cito due frasi che Berio scrive a distanza di quarant’anni l’una dall’altra: “Non è certo un caso che la teoria della Gestalt si sia sviluppata su quello che si vede e non su quello che si sente” (Invito, 2003); e, nel 1961: “Agire musicalmente significa organizzare la percezione e non le note”. Qual è il rapporto di Berio con la psicologia della percezione? Come mai nel 2003 si mostra restio ad allargare la teoria della Gestalt alla percezione uditiva, cosa che era stata fatta per esempio da Albert Bregman già a inizio Anni Novanta?
Esprimersi esattamente sulle letture che Berio ha fatto sull’argomento è molto difficile. Senz’altro lo spettro delle sue letture e delle sue conoscenze è molto più ampio di quello che si possa pensare. Per quanto riguarda la differenza di lettura che passa dal 1961 al 2003, direi che è quasi normale (“umano”) che qualcuno cambi idea a distanza di circa quarant’anni!
Nello stesso tempo, però, vorrei qui ricordare che nel ’61 (e il testo che citi, l’Intervento al dibattito “Musica sperimentale e musica radicale”, è in realtà una lettera aperta al direttore della Biennale Musica), Berio prende esplicitamente posizione contro i serialisti, contro coloro che “organizzano le note”. Per Berio, con le note bisogna “organizzare la percezione”, bisogna immaginare il risultato sonoro, aiutare ad “ascoltare” e cercare di capire come si può ascoltare al meglio.
Si metteva “dalla parte di chi ascolta”?
Non necessariamente: si metteva da un’altra parte rispetto a un modo di fare e pensare la musica che era quello del momento. Per Berio fare musica e ascoltare è un tutt’uno. La musica non è mai fine a se stessa: la musica è fatta per essere ascoltata. Berio compositore è prima di tutto un musicista; ma non solo: è un musicista che ascolta. Scrivendo pensa contemporaneamente a come la sua musica sarà recepita. Di qui il grandissimo malinteso su opere come Sinfonia (1968-69), che continua a essere interpretata come opera che ha quasi anticipato il postmodernismo, come capolavoro nell’arte musicale del collage, laddove quello che Berio intendeva realizzare era una “analisi concentrata” (e di riflesso: un ascolto concentrato) di tutta la storia della musica. Sinfonia è, da alcuni punti di vista, la sua maniera di “ascoltare” secoli di musica.
L’ascolto per Berio viene prima di tutto, prima di ogni considerazione teorica o filosofica. Da questo punto di vista la posizione di Berio è molto simile a quella di Maderna: entrambi sono (mi si lasci passare l’espressione) due “animali musicali” per i quali è difficile scindere gli atti dello scrivere musica, del fare musica (nel senso di realizzarla, eseguirla) e dell’ascoltare musica.
Klee, Duchamp, Magritte, Rothko, Calvino, Sanguineti, Joyce, Beckett, Kafka, Brecht: sono solo alcuni degli “interlocutori” con i quali Berio si confronta. Si può provare a trarre qualche conclusione, su questo incessante dialogare di Berio con forme d’arte non musicali?
Non so fino a che punto sia necessario farlo. Per Berio tutto è cultura e… tutto è musica. Tutto fa parte di un sapere che, nella sua forma di espressione artistica, si trasforma in musica. Quando parla di confronto con l’opera di Klee, per esempio, Berio parla di confronto delle forme, di uso dei materiali; la sua “traduzione”, su un livello del fare, è quindi operata con materiali musicali. Parla di una concezione formale e di prospettiva pittorica, ma si tratta sempre di elementi letti con gli occhi di chi fa musica.
L’interesse per le altre arti, però, non è mai, in Berio, né imitazione né una ricerca di “stimoli esterni” verso un qualcosa che si possa poi rendere musica. È piuttosto la volontà di capire come un artista, con i materiali e i mezzi propri alla sua arte, possa organizzare una forma e strutturare dei materiali; di capire come si possa raggiungere una forma di espressione artistica per mezzo di un linguaggio specifico. Questa ricerca, questo desiderio di conoscenza, passa per Berio attraverso il confronto con le altre arti.
Credi che Berio abbia mai creduto realmente alla possibilità concreta di realizzare qualcosa come un’opera d’arte totale (penso alle parole di saggi come Dei Suoni e delle immagini, Poesia e musica – un’esperienza, Disegnomusica e Verso un teatro musicale) o pensi che i suoi tentativi fatti in questa direzione siano stati, appunto, tentativi di tipo sperimentale?
È una domanda che non ha una risposta univoca. Il Berio post-Passaggio (1961-62), il teatro che va da Passaggio a Opera (1969-70, rivista nel 1977) a La Vera Storia (1977-80), o ancora il Berio di Esposizione (1963) o di Laborintus II (1965), per ampliare ancora la lista, è un compositore che attraversa differenti tappe in cui è possibile intravedere una sperimentazione che mirava a un certo tipo di connessioni tra forme sceniche, spaziali e “gestuali” differenti. Ma non lo chiamerei teatro totale… piuttosto, riprendendo le sue parole, si tratta di varie tappe che concretizzano un’ideale di “opera moderna”.
Confrontandosi con spazi così pieni di storia come quelli teatrali, Berio ha sempre cercato di rileggere quegli ambienti – e l’uso della musica al loro interno – cercando di arrivare a un “nuovo” teatro musicale proprio partendo dalla storia implicita e insita in quegli spazi. Anche di qui nascono le riflessioni sul gesto e sul bisogno di allargare la percezione ad altre forme audiovisive. Ma, ripeto, non chiamerei di “arte totale” le sue opere, né parlerei per queste differenti forme di spettacolarizzazione della musica di nuovi “linguaggi”…
“Quando penso a Mozart, a Wagner o a Debussy, evoco nella mia mente delle opere precise, collocate in una prospettiva di valori e di interessi che mi sono propri. Quando penso a Bach, invece, non mi sento indotto a porre le singole sue opere in una prospettiva cronologica lineare e sembra acquistare un valore simbolico il fatto che il catalogo ufficiale dell’opera bachiana appaia talvolta in conflitto col calendario. Tendo a pensare a Bach come nozione, come enteléchia, come organismo della mente i cui caratteri globali paiono trascendere le sue proprietà locali. Bach come idea, per ragioni che in parte ancora mi sfuggono, non si lascia illustrare completamente dalle sue opere né lo si può collocare completamente in esse”. Questo scriveva Berio del suo Bach(Il Mio Bach). Pensi che lo stesso si possa dire di Berio?
Magari ti rispondo tra vent’anni! Ora come ora, però, direi di no. Magari tra venti o tra cent’anni, quando la storia della musica della seconda metà del Novecento e di questi anni si sarà cristallizzata, potrei dire che la sua musica, che sia quella degli Anni Cinquanta o degli Anni Novanta, “non ha tempo”. Per il momento mi sembra però che, dalle prime prove compositive fino all’ultima opera, Stanze (2003), ogni composizione possa collocarsi in un momento storico-musicale preciso e rifletta determinate problematiche o interessi musicali coevi. E questo non toglie nulla al fatto che ogni opera della sua biografia artistica è, in sé, stabilmente affermata in quello che chiamiamo comunemente “repertorio”.
Quanto voglio dire è che Berio è un compositore che ha “respirato” e vissuto profondamente i cambiamenti propri alla temperie culturale e artistica dei suoi anni, e questo “respiro del tempo” è presente in tutte le sue opere e le sue sperimentazioni. Pensiamo alla musica elettronica, a opere come Tema (Omaggio a Joyce) (1958)o Momenti (1960): entrambi sono pezzi esemplari nel loro genere, unici e destinati a restare nei secoli, ma come non collocarli in un preciso periodo storico? Lo stesso Studio di Fonologia, dove quelle opere furono prodotte, nasce in un determinato periodo e non sarebbe potuto nascere né prima né dopo. E questo credo si possa dire per tutte le opere che si susseguono nella sua cronologia artistica… Affermare che la musica di Berio non abbia tempo sarebbe come dire che è un’idea, laddove essa è una presenza.
Vincenzo Santarcangelo
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