Luigi Ontani al Kapanon. Ieri, oggi, domani
Il Kapanon, un anonimo prefabbricato ad Altavilla Vicentina, è diventato il rifugio di un’importante collezione. Ma anche il luogo dove annualmente s’incontrano, in una serata senza “nessuna istituzionalità”, alcuni dei protagonisti del mondo dell’arte. Galleristi, artisti, collezionisti, direttori di musei... Per ascoltare, confrontarsi e ripartire verso nuove avventure.
Appena fuori Vicenza. Dove la Basilica Palladiana, il Teatro Olimpico, il Palazzo del Capitanio sembrano sbiadirsi in lontananza. Ad Altavilla, una periferia in cui ci si tuffa nella tipica “nebulosa” veneta, fatta di fabbriche e fabbrichette, spesso chiuse per la crisi. Un territorio che si frammenta, si satura, si snatura, perde ogni identità. E probabilmente anche ogni memoria della propria storia. Proprio qui dove non c’è più nulla dei “miti benigni e terrestri”, come li avrebbe chiamati il grande poeta Zanzotto, si trova il Kapanon di Giancarlo Danieli. Proprio così, “kapanon”, un mix linguistico di dialetto locale e di inflessioni austroungariche.
È un ampio spazio, una costruzione industriale che ospita oggi una sorprendente collezione di arte contemporanea: dagli Anni Sessanta al contemporaneo più audace. Ebbene, qui, ormai da dodici anni, in tarda primavera, si avvera una sorta di rito propiziatorio, un evento proponibile solo nei grandi musei: un incontro con le figure più rinomate del mondo italiano dell’arte. Da galleristi come Mazzoli a direttori di musei come Eccher e Maraniello a critici come Bonito Oliva a collezionisti come Patrizia Sandretto, Annamaria Testa, Enea Righi, Ernesto Esposito, ad artisti come Montesano, Cucchi, Chia, a editori come Politi. In una saletta conferenze ricavata al centro del Kapanon, come fosse una perla in un’ostrica, i vari protagonisti del sistema dell’arte vengono a raccontare le loro storie, le loro scommesse, i loro modi di affrontare l’arte in un’epoca caratterizzata dalla frantumazione di ogni progetto, dall’esplosione di ogni forma, dal più radicale occasionalismo espressivo.
Quest’anno è stata la volta di Luigi Ontani, l’artista che ha fatto dell’arte e della vita una leggenda continua e un diletto rituale della rappresentazione del sé come altro. Entra in scena leggero, come in un’apparizione o in un sogno. “Una figura strana, pallida, longilinea, con larghe mandibole su un viso magro”, come lo descrisse Parise. Vestito color vinaccia, scarpe bicolori, con una sua maschera di Bali in mano. È “un narciso innocente e folle” che si lascia trasportare dai suoi ricordi, dalle sue mille vite, dai suoi disarmanti sogni e utopie. Così, con voce lenta, suadente, quasi riluttante, inizia quella che, più che una “relazione ragionata”, si dimostra un dialogo aperto con il pubblico.
Gli piace tornare agli inizi quando realizzava i cosiddetti Oggetti pleonastici”, calchi in scaiola (o in gesso) dipinto a mano, che “si prestavano a delle posizioni corporali e a un certo tattilismo”. Autentici giocattoli-non giocattoli, sculture non-sculture. Gli piace riandare all’Angelo custode a pedale, che “forse sta ancora in cantina”, uno strano ready made o macchina celibe in cui, spingendo un pedale, si accende una lampadina celeste. Tutte realizzazioni in materiali poveri, semplici, come quelle esposte alla Galleria Ferrari di Verona, che consistevano in “cartoni ondulati” capaci di creare veri ambienti che circuivano gli spettatori mentre questi vi passeggiavano in mezzo. Il senso di questi lavori consisteva in un gesto extraquotidiano, quasi un dopolavoro ludico: ritagliare forme che congiungevano diversi saperi provenienti dall’archeologia, dall’antropologia, dall’etnologia. “Mi rifacevo alle teorie di Foucault di ‘Le parole e le cose’”, continua sempre Ontani, “perché lo stilema del ritaglio, del profilo, della ripetizione non era altro che la visualizzazione di concetti linguistici, come simpatia, convivenza, similitudine. Questo mi ha permesso di giocare, ibridando. Tanto che quando questa ibridazione è entrata in contatto con le mitologie, con le statue, con gli dei, mi è piaciuto chiamarli ‘ibridoli’ (ibridazione di idoli)”.
Questo concetto di intreccio e contaminazione infinita ha spinto Giobatta Meneguzzo (Museo di Malo) a intervenire, ripensando a un suo lontano incontro con Ontani, quando gli sottolineò l’origine etimologica del suo nome: Ontani, come le piante dei boschi, con il loro galleggiare nell’acqua e la credenza che fossero abitate da spiriti. E Ontani risponde: “È la testimonianza di un tempo remoto, quando anche le gallerie erano luoghi di ritrovo, di dialogo, di interlocuzione. Oggi viaggia tutto in rete, il dialogo è diffuso su tutta la terra. E il qui diventa un ovunque”.
Ma tutti aspettano che l’artista parli dei suoi “tableaux vivants”, dei suoi trasformismi (delle sue trasfigurazioni), delle sue azioni-spettacolo di carattere simbolico, mistico, fiabesco, sottilmente erotico. E lui, il virtuoso dell’Opera d’Arte Totale, non si fa aspettare: “Mi sono reso conto del senso del travestimento”, afferma, “quando nel 1974 sono stato invitato da Jean-Cristophe Amman a partecipare a Lucerna alla grande esposizione ‘Transformer’ (titolo ripreso da Lou Reed) in cui venivano mostrati i travestiti, la vita di strada, le eccitazioni del rock. Esposizione piuttosto trasgressiva per i tempi. Comunque ritengo da sempre il trasformismo una forma coraggiosa di sfida alla nostra identità. E nell’occasione ho giocato con le identità della storia dell’arte, della leggenda, della religione. Mi sono riferito alle favole di Esopo illudendomi di poter attraversare epoche, età e corpi e di assumere i connotati dei personaggi che mi piacevano, per diletto o per dispetto. È il discorso della ‘maschera aggiunta’: è come usare le ali per volare su altre identità. L’identità è il più delle volte ambigua. Ma si tratta di un’ambiguità densa di sensi, di fantasie, di echi culturali. Ci si spoglia di se stessi e si entra nel mito”.
Ma tra le tante tecniche sperimentate – sculture, dipinti, acquerelli, disegni, scritture, fotografie – ce n’è ancora qualcuna da “tirar fuori dal cassetto”? E Ontani risponde: “Il cassetto è aperto. Io non ho mai considerato il mio linguaggio come sperimentazione. È l’idea che mi suggerisce il mezzo e il comportamento. Mi ha stimolato molto, ad esempio, fare dei lampadari a Murano. Ci sono dei maestri straordinari che, solo nella ripetizione della loro abilità, realizzano la loro creatività”.
E il futuro di Ontani che strade prenderà? Oggi che non sono più ammessi viaggi né reali né virtuali, quali paesi e quali identità potrà ancora interpretare e vivere? “C’è la possibilità di esprimersi nutrendosi di una decadenza da rigiocare”, prosegue Ontani. “Mi piacerebbe anche avere la possibilità di esprimermi attraverso elementi più avveniristici. Uno dei miei rimpianti è di non aver mai fatto un volo spaziale: una specie di desiderio inesausto del sublime. Ma non mi dispiacerebbe fare delle cose che hanno un uso pratico. Di fronte a un museo come il Maxxi (uno spazio goffo, megalomane, grandioso, deformato) l’unica possibilità sarebbe quella di fare sculture volanti (magari in plastiche coloratissime) che si alzano, sfidando ed evadendo i limiti di uno spazio e di un’architettura così poco sensibili: anche a costo di perdersi per sempre”.
Così Ontani. E, mentre il selezionato pubblico di amici (tra cui Gabriella Belli, Emilio Mazzoli, Massimo Di Carlo, Montesano, Cingolani ecc.) lascia il Kapanon, nasce un interrogativo: può la fragilità dell’arte cambiare il mondo? Certo non ha la forza per riaprire le fabbriche, per far rivivere le rovine. Ma, forse, è nel contatto e nella pratica di questa coscienza problematica che essa ha un ruolo insostituibile. E’ a partire da qui che l’artista può continuare ad alimentare la nostra capacità immaginativa, invitandoci ad avere uno sguardo radicalmente nuovo sulla realtà.
Luigi Meneghelli
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