Giovanni Frangi, il giapponese: alla Galleria Gracis di Milano i paraventi creati dall’artista italiano in dialogo con modelli orientali di epoca Taishō
Alte poco più di un metro e mezzo, larghi quasi quattro. Cesellate con la classica e imperturbabile pazienza dell’acquarellista, un millimetro alla volta, un segno dopo l’altro. Foglia per foglia, a restituire l’elegante magia del fluire delle stagioni: sono le due immagini di acero palmatum che un anonimo maestro di epoca Taishō – siamo nel […]
Alte poco più di un metro e mezzo, larghi quasi quattro. Cesellate con la classica e imperturbabile pazienza dell’acquarellista, un millimetro alla volta, un segno dopo l’altro. Foglia per foglia, a restituire l’elegante magia del fluire delle stagioni: sono le due immagini di acero palmatum che un anonimo maestro di epoca Taishō – siamo nel Giappone a cavallo tra Anni Dieci e Venti e del Novecento – ha riprodotto sulle ante di un raffinato paravento, originariamente a sei ante, elemento d’arredo iconico per una cultura a noi tanto distante. Un saggio di arte orientale dal fascino incredibile quello portato a un passo dal Castello di Milano, negli spazi di Gracis; un brano di arte antiquaria che la galleria, specializzata nel settore, sceglie in modo inedito di far dialogare con una grande firma del contemporaneo italiano. È Giovanni Frangi a rispondere presente all’invito di cimentarsi con una formula lontana anni luce dalla sua formazione e dalla sua idea di fare arte; accettando la sfida di un dialogo tra pulsioni e suggestioni agli antipodi. Dividere e insieme moltiplicare le geometrie domestiche: un ossimoro apparente quello per cui nascono nell’antico oriente i paraventi, sensuali a creare alcove segrete per giochi d’ombre; ma al tempo stesso efficaci strumenti di amplificazione e sottolineatura di spazi, ambiti, contesti. Nei nove metri doubleface del modello di Frangi la funzione viene sublimata dall’estetica: il paravento perde il proprio ruolo scenografico – per certi versi architettonico – e si libera come pura opera d’arte, libera tela che accoglie la ridda di segni gestuali dell’artista. In una drammatica scala di grigi che completa e integra la sublime poesia del modello giapponese.
Il meltin’ pot culturale, insomma, funziona e seduce. E già si parla di serializzare l’esperimento, chiedendo ad altri artisti di oggi di mettersi in gioco con la rielaborazione di temi e situazione proprie dell’arte classica orientale.
– Francesco Sala
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