Rem Koolhaas e la Biennale di Architettura. Tante novità, un tema su cui riflettere
Una rassegna di ricerca, la 14. Biennale di Architettura diretta da Rem Koolhaas. Che dedica l’intero Arsenale all’Italia, il padiglione centrale ai Giardini a un repertorio storico-elementare. E affida un tema ai padiglioni nazionali, oltre a coinvolgere i direttori delle biennali di Cinema, Teatro e Danza. Una riflessione dopo i giorni inaugurali. E sullo speciale estivo di Artribune Magazine troverete molti pareri eccellenti.
La 14. Biennale di Architettura, intitolata “Fundamentals”, la inaugura la magistratura italiana all’alba del 4 giugno, primo dei tre giorni di anteprima per la stampa, arrestando il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni con altri 35 accusati e chiedendo la prigione per un deputato della Repubblica e un deputato europeo. Pare che il mastodontico progetto ingegneristico per evitare l’acqua alta a Venezia, il Mose, lievitato da 1,8 a 5 miliardi di euro di costo (e non ancora terminato), sia stato preda della corruzione costata un miliardo, un quinto del totale. Soldi pubblici, s’intende, soldi di quei cittadini onesti che pagano interamente le tasse, ovvio. Soldi dei veri, unici e insindacabili committenti di questa opera di faraonica ingegneria.
Cosa c’entra l’architettura? Forse nulla o forse tutto. Specie se vista con gli occhi di Rem Koolhaas, (anti)archistar inquieta e severa, amato per i suoi studi su New York (1978), modello postmoderno di città (riuscita) senza progetto, e su altri aspetti che toccano il rapporto fra architettura, città e società.
Lui, un metodo anticorruzione lo ha ritrovato in un testo antico cinese riguardante la costruzione dei tetti delle pagode. Il segreto è il modulo, legnoso, ingegnoso ed esteticamente appagante, che è stato mantenuto uguale a se stesso per secoli, facile da realizzare, capace di avere un costo chiaro, evidente. L’olandese (che in Laguna sta recuperando il Fondaco dei Tedeschi per la famiglia Benetton) lo ha esposto nella sala dedicata ai tetti, nella mostra Elements of architecture. Allestita come una mostra di sculture (o di installazioni), ma anche come una enciclopedia “esplosa” sui grandi muri bianchi del padiglione centrale ai Giardini, questa esposizione, contestata e contestataria, fa i conti con le più semplici parti che un qualsiasi edificio “non può non avere”: dal pavimento al tetto, dal riscaldamento al water, che vanta una storia gloriosa e studi universitari di tutto rispetto (in esposizione anche l’esemplare romano in pietra delle Terme di Caracalla proveniente dal British Museum).
Questa impegnativa (Koolhaas ha chiesto due interi anni per prepararla) operazione di “ontologia” architettonica punta all’essenza del senso che diamo alla parola ‘costruire’: togli una sola parte di questi elementi (qui illustrati e studiati: Marsilio edita 15 libri extra) e l’architettura non c’è più. Siamo esseri e società fragili, in fondo. Togli anche solo la toeletta e tutto crolla miseramente, riportandoci all’età della pietra e del primo fuoco addomesticato, di cui c’è una versione accesa 228mila anni fa (è un pezzo di terra, originale, fossilizzato e datato al carbonio).
Chi si aspettava i progetti di archistar, le ennesime, o di giovani promesse, è rimasto deluso. Dall’alto del suo scranno di filosofo (pratico, nel senso kantiano) dell’architettura, Koolhaas invita i colleghi a fare un bagno di umiltà ripartendo dai fondamentali. Potrebbe essere tacciato di arroganza, ma potrebbe anche non avere tutti i torti. Ai più, questa messe di finestre, maniglie (di ogni periodo e foggia: studio comparato di rara efficacia) e balconi (che tra il serio e faceto sono indicati come la conditio sine qua non architettonica dei totalitarismi: cosa sarebbe stato Mussolini senza il balcone?) darà la sensazione che questo corpo, magnifico e sempre più spettacolare, che chiamiamo architettura è in realtà un bios fatto dei soliti organi vitali, ma che proprio questi evolvono in modi e forme sempre nuove e affascinanti, descrivendo bene anche i cambiamenti antropologici, culturali e sociali dell’umanità.
Questa mostra, che ha il pregio indiretto di non “celebrare” nessun collega (archistar) del direttore, dà un certo eccitamento: è come sbirciare dietro le quinte, come rovistare tra i rifiuti delle star, o come far parte di un segreto. Per fare ciò, Koolhaas si è servito dei dati provenienti da sei università (tra cui il MIT, Yale e Harvard) e del lavoro di sistemazione delle informazioni dello studio AMO, da lui cofondato.
La seconda metà della sua mostra è Monditalia. Gli dedica l’intero Arsenale. Il Belpaese viene analizzato attraverso decine di case history: da Lampedusa a Belluno, passando per La Maddalena, L’Aquila, Milano 2 e Pompei. Innovativa l’idea di assegnare o scegliere quei lavori di analisi e “messa in scena” eseguiti da studi di giovani architetti, urbanisti, teorici, grafici e artisti, tra cui molti italiani. Un esempio di “antistarismo gerontopatico” che segna una biennale ricca di elementi di rottura. In buon stile Koolhaas. Come il caso inedito del tema “imposto” ai padiglioni nazionali. Absorbing modernity 1914-2014, questo il tema, ha permesso (e molti curatori di padiglioni sono stati grati all’olandese) di fare il punto su una modernizzazione che è risultata problematica (con aspetti positivi e negativi) ad ogni latitudine: dalla Francia, che la ipotizza come “minaccia”, al Brasile, che ne ha fatto la propria “tradizione”.
Il Padiglione Italia di Cino Zucchi, che meriterebbe considerazioni a parte, resta “oscurato” dalla mostra dell’Arsenale, dove la dirompente introduzione di danza, cinema e teatro (in collaborazione con i rispettivi direttori della biennale) ha creato un certo iniziale consenso ma anche probabili perplessità, che sono ancora da valutare. Per Paolo Baratta, superpresidente per quasi tre lustri in due diversi periodi, questa edizione è una grande sfida. Ha voluto Koolhaas per costruire una “biennale della ricerca”. Già presente alla Biennale del 1980, chiamato da Paolo Portoghesi per partecipare al progetto di Strada Novissima, che diventerà il manifesto dell’architettura postmoderna, Koolhaas è stato insignito nel 2000 del Pritzker Prize, l’Oscar dell’architettura, nel 2003 del Premio Imperiale e nel 2010 del Leone d’oro alla carriera. Il suo curriculum parla chiaro e avverte i possibili detrattori di una Biennale che va studiata per essere compresa fino in fondo.
Si potrebbe concludere citando alcuni dati con i quali si apre Monditalia: nel nostro Paese ci sono 147mila architetti, uno per ogni 414 abitanti, quasi quattro volte più degli Stati Uniti (un architetto ogni 1.490 abitanti) e ben oltre la Cina (uno ogni 40mila). L’Italia è il secondo mercato dell’architettura in Europa con 2,8 miliardi di euro di valore annuo, seconda solo alla Germania (4,2 miliardi) e ben oltre Inghilterra e Francia. I dati sono neutri. Al lettore l’onere di trovarvi un senso, una direzione: eventualmente, un destino.
Nicola Davide Angerame
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