Solitudine e videoarte. Intervista con Marcantonio Lunardi
Il 7 luglio il suo nuovo lavoro “370 New World” sarà presentato alla nona edizione del “Videoart Yearbook”, organizzata dal dipartimento delle Arti Visive dell’Università di Bologna. Abbiamo intervistato Marcantonio Lunardi.
Un periodo di fibrillante circuitazione, quello vissuto in questi ultimi mesi da Marcantonio Lunardi (Lucca, 1968), a cui la definizione di “artista emergente” comincia a stare decisamente stretta. Non solo per l’età, che ha da sempre messo in difficoltà chiunque lo abbia cercato di schedare in qualche protocollare “artisticanagrafica” categoria, ma soprattutto perché le due variabili non sono più associabili in alcun modo, visti i recenti successi e la maturità raggiunta nei suoi ultimi lavori. Preferiamo quindi considerarlo un videoartista classe ‘68 in rapida ascesa, che in breve tempo ha saputo guadagnarsi stima e riconoscimenti nel panorama internazionale grazie a un linguaggio talmente personale ed evocativo da diventare ormai una firma facilmente identificabile.
Era il 2011 quando il suo occhio da documentarista diplomatosi alla scuola del Festival dei Popoli di Firenze ha contratto l’astigmatismo onirico del cinema sperimentale. Allora si faceva strada nel mondo della videoarte con una critica agli effetti della politica affidata al linguaggio poeticamente pungente della sua Trilogia della decadenza, di cui facevano parte i lavori Laboratoire Italie, Suspension e Last 21 Days. Nei due anni successivi la sua riflessione ha indagato i temi del lavoro e del rapporto con le nuove tecnologie come fonte di incomunicabilità e isolamento, pensiero tradotto in Default, The Choir e Fall Out. In questa intervista l’artista ci parla del suo nuovo lavoro, 360 New World, dell’evoluzione del suo linguaggio narrativo e dei suoi progetti in corso e futuri.
370 New World sarà presentato alla nona edizione del Videoart Yearbook organizzata dal dipartimento delle Arti Visive dell’Università di Bologna. Parlaci dell’evoluzione creativa di questo nuovo lavoro e di cosa rappresenta a questo punto della tua carriera.
370 New World è un indirizzo dove finisce e inizia tutto. Alla fine del film, quando il contadino semina il suo grano sull’asfalto, si vedono due numeri civici: il 370 è l’indirizzo del mulino in disuso. Quest’opera è un punto di svolta nella mia poetica, che si spinge ancora di più verso la contaminazione tra videoarte e cinema sperimentale in parte già percorso da artisti come Isabel Rocamora, Ye Linghan o Che Chieh-jen. La narrazione della mia opera avviene per tableaux vivants e procede descrivendo due solitudini del mondo contemporaneo. La prima scaturisce dalla crisi economica e la seconda deriva dalla società di cui siamo parte che ci porta a inventare delle vie di fuga dalle nostre angosce quotidiane.
Non posso dire che 370 New World sia un punto arrivo, perché ogni opera che realizzo è un esperimento su me stesso e sul mio linguaggio. Penso però che questo lavoro attinga a una zona molto profonda della mia coscienza che ho cercato di ricostruire con cura per condividerla con agli spettatori in maniera confidenziale.
Hai cominciato ad approcciarti ai primi lavori con la telecamera da documentarista per poi dedicarti quasi interamente alla videoarte. Definiresti questo tuo percorso una scelta consapevole o una naturale evoluzione?
Ritengo che tutto il mio lavoro sia una naturale evoluzione delle mie esigenze narrative. Ero assolutamente affascinato dal linguaggio utilizzato da alcuni registi come Pelechian, Wiseman e Patricio Guzman che ho avuto la fortuna di studiare. La delicatezza con cui riuscivano a portare lo sguardo dal piano antropologico a quello poetico è stata per me rivelante e mi ha incoraggiato a tentare nuove forme di scrittura. L’alchimia tra cinema del reale e cinema sperimentale, con il tempo, si è sviluppata portandomi al linguaggio che oggi utilizzo nelle mie opere e che si rifà in particolare all’immaginario di molti autori contemporanei asiatici.
Sei di recente stato selezionato da Maria Yvonne Pugliese tra gli artisti che esporranno alla Biennale dello Xinjiang 2014 curata da Peng Feng. La Cina ha un fiorente panorama artistico contemporaneo e tu stesso hai detto di essere stato influenzato nel tuo stile narrativo proprio da una mostra di videoarte intitolata Moving Image in China. Cosa ti aveva colpito e come hai tradotto questi stimoli nel tuo lavoro?
Avevo già avuto modo di rapportarmi con l’arte cinese contemporanea, ma incontrare opere video che per certi aspetti stravolgevano il concetto di videoarte e di narrazione artistica che avevo studiato fino ad allora è stato un momento sconvolgente. Riflettere sulle storie raccontate da Huang Ran con la sua Blithe Tragedy o lasciarmi affascinare dal cavaliere antico di Yejiang con il suo The nightman Cometh ha cambiato il mio modo di concepire la creazione videoartistica. Sapevo che potevo spingermi oltre i confini della vecchia Europa e l’ho fatto.
In molti dei tuoi lavori si mescolano e si alternano due costanti: i nuovi media e la presenza incombente di ex fabbriche oramai decadenti, a trasmettere contemporaneamente l’angoscia dell’incomunicabilità nell’uomo contemporaneo e un forte desiderio di denuncia. Contrasto e/o interdipendenza che si risolve nel titolo ma soprattutto nel finale del tuo ultimo lavoro. Perché questi elementi ricorrenti e cosa ti ha portato a tradurli nel risvolto amaro di 370 New Word?
Viviamo in una società di monitor. Questi apparecchi li ritroviamo ovunque: dai monitor che ci indicano i dati tecnici delle nostra auto ai sistemi di controllo medico fino alla classica televisione. Tutta questa tecnologia non ha impedito il crollo economico che ci ha trascinato a fondo ma, anzi, abbiamo assistito alla nostra caduta proprio attraverso i monitor. Gli edifici storici in disuso sono il background su cui scrivo la mia narrazione visiva. Mi ricordano sempre quello che siamo stati e quello che siamo. Nel mio ultimo lavoro, il monolite che chiude il video, il più grande mulino europeo degli Anni Settanta, non è altro che la decadenza di un passato con cui dobbiamo fare i conti e contro la quale il contadino continua tenacemente a lottare seminando come in un’ultima resa dei conti.
Dando uno sguardo ai festival a cui partecipi, ai premi che hai ricevuto e agli eventi a cui vieni invitato, sembra che l’interesse verso il tuo lavoro venga manifestato soprattutto all’estero. Ritieni che il mercato della videoarte italiano sia un sistema di più difficile accesso e la tua “internazionalità” vada quindi interpretata come una scelta, o a tuo parere ci sono delle difficoltà oggettive per gli artisti emergenti che li obbligano a prediligere alcune strade anziché altre?
Il mio percorso è stato solitario. Avrei voluto avere vicino persone che mi consigliassero, che mi dessero indicazioni per promuovere il mio lavoro e che mi permettessero di affrontare un mondo che non conoscevo con più serenità, ma tutto questo non è avvenuto. Ho tentato un primo approccio al sistema italiano ma ho desistito dopo aver provato cosa significava il silenzio dei curatori.
Dopo questo primo muro, apparentemente insormontabile, ho iniziato un cammino all’estero e le cose si sono sviluppate in maniera molto naturale. Così, dopo tre anni di impegno, le mie opere hanno iniziato ad avere una loro collocazione in esposizione museali internazionali e nazionali. Dopo questo percorso internazionale, e forse proprio grazie ad esso, sono riuscito a rientrare in Italia con le mie opere. In quest’ultimo periodo ho avuto modo di conoscere persone interessanti come i responsabili del museo Lucca Center of Contemporary Art, che considerano l’arte come una forma di crescita culturale e non solo come un buon investimento economico.
Quali sono i tuoi prossimi appuntamenti e i tuoi progetti in circuitazione?
Attualmente alcune mie opere sono presenti in esposizioni importanti. Il mio ultimo lavoro 370 New World è stato inserito nell’annuario della videoarte italiana, il Videoart Yearbook 2014, e sarà in mostra al museo Lu.CCA – Lucca Center of Contemporary Art sotto la curatela di Maurizio Vanni per tre mesi. La mia opera Default è esposta alla 2nd Xinjiang International Art Biennale dal titolo Encountering: New Art on the Silk Road sotto la curatela di Maria Yvonne Pugliese e del professor Peng Feng, mentre il video Suspension è in mostra al Museum on the Seam a Gerusalemme per cinque mesi.
I miei prossimi lavori si soffermeranno su due temi a cui tengo molto: la medicalizzazione della donna e la spersonalizzazione dell’individuo. Quest’ultimo lavoro sarà multidisciplinare e partirà da un’idea di reinterpretazione visiva della Shoah.
Silvia Giordano
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