Paranoia in architettura
Di quanta architettura ha bisogno l’uomo? Disfunzione sociale degli spazi, distopie urbanistiche, architettura-design. Più design che architettura. Involucri-narciso quali performance spaziali delle metacittà asociali e commerciali…
Due visioni dell’architettura s’impongono. Un’architettura di passaggio, o del divenire: involucri della transizione da uno stato a un altro (avatar), dove la forma-oggetto – od oggetto ready made – cerca una relazione con la funzione simbolica, anch’essa divenuta disfunzionale a vantaggio della spettacolarità dell’apparenza. Gehry, Nouvel o Piano, ad esempio. Dall’altro, un’architettura della desolazione o del cambiamento, della delocalizzazione, disneyficata. Ultra-architetture interculturali (per tutti e per nessuno) che somigliamo agli ultracorpi della società dei consumi.
A Dubai, ad esempio, tutto il paesaggio cambia in funzione di una città astratta, senza l’altro (l’uomo); una città ipertecnologica, comprese le piste di sci nel deserto. L’architettura-design, qui, precede la relazione con l’ambiente cui gli abitanti devono adattarsi. Anche il sorriso del cameriere è modellato in relazione all’astrazione del design architettonico. È l’effetto di una contrazione mascellare e registra più d’ogni altra cosa l’artificialità di un mondo senza anime: affaristi, speculatori, arricchiti, petrolieri… Categorie del postumano che si specchiano in un’architettura a sua volta postumana.
Ma entrambe queste visioni hanno in comune la percezione cinetica dello spazio tramite la dislocazione capillare di superfici traslucide fino alla paranoia, dove il corpo e lo sguardo sono vezzeggiati nella certezza perversa della loro inutilità. La “contemporaneità” di questi spazi, la loro sincronizzazione globale corrisponde a un individualismo d’élite. Di sociale, queste architetture non hanno nulla. Piuttosto sono esemplari celibi, come la scrittura di Roussel.
Architettura del cambiamento e architettura del divenire si contendono una nuova percezione dello spazio.
Dalla paranoia delle forme regolari del passato alla paranoia delle anti-forme d’oggi, viene disegnata l’architettura del futuro. Si potrebbe vedere nell’architettura odierna un’introduzione alla paranoia collettiva nel senso di Lacan. Profeticamente il “delirious New York” di Koolhaas è oggi il delirio-mondo. Occorre rileggere il metodo “paranoico-critico” di Dalí per avere ragione di uno spazio architettonico che è lo specchio anamorfotico di uno spazio paranoico collettivo.
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #19
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