L’opera d’arte nella costellazione del denaro. Parte prima
Ovvero: tentativo di oggettivazione nella compravendita di opere d'arte. È il titolo del minisaggio di Claudio Parrini che vi proponiamo in due puntate questo weekend. “Esami e osservazioni sul tema arte-economia-sopravvivenza”…
Valore dello scambio, oggetto e soggettività
Lo scambio o la compravendita di un oggetto d’arte è quel momento in cui esso incarna, quasi difende a suo modo, la sua oggettività; attraverso uno scambio ritenuto “alla pari” o tramite mediazione monetaria o altro valore-intrinseco (oro, metalli e pietre preziose, criptomonete), o con un numero superiore di oggetti della stessa natura ritenuti di valore inferiore (un dipinto in cambio di due disegni e un acquerello); o di natura completamente diversa (un quadro con una damigiana di vino), o altro ancora: le forme di scambio e baratto sono variegate e indefinite. Lo scambio, dunque, supera la pura soggettività dell’oggetto d’arte scambiato e viene a mancare il significato di valore meramente riferibile a un concetto, uno “sguardo”, e attribuzione soggettiva, in primis naturalmente quella affettiva. Questo momento è l’apice, l’atto-emblema della comunicazione dell’opera-oggetto-d’arte: una comunicazione “reale” (qui nel senso non solo di fruizione e godimento, ma si passaggio, di circolazione, di senso transitivo) e pratica, perché con la “stretta di mano tra soggetti” viene come con un’accetta tagliato di netto il cordone ombelicale della soggettività dell’opera.
“Il frutto spontaneo, raccolto senza fatica e non dato in scambio, ma consumato direttamente, non è un bene economico” (Georg Simmel).
Il valore di un oggetto d’arte, e quindi tutti i suoi risvolti economici puri, nasce nel momento, nell’atto (in simultanea) dello scambio, della cessione, perché lo scambio delinea, demarca (e allo stesso tempo abbatte) la barriera che si forma tra il soggetto e l’oggetto, che riesce a trasformare l’energia emozionale soggettiva nella decifrazione e “peso” dell’oggetto. La relazione economica è quindi basilare (io rinuncio, reciprocamente come te, a qualcosa per ottenere altro), per categorizzare e tassonomizzare il mondo degli oggetti ritenuti opere d’arte in una “scala di valori”. Questa scala appunto si basa sull’oggetto desiderato, voluto, (ricercato), in rapporto e confronto con un altro oggetto che possa essere ceduto in cambio. Allora in questo caso siamo di fronte a una relazione economica reale, fondata sul desiderio, sulla passione. Certamente l’aspetto della variabile stupore/emozione in questo intreccio, tra due oggetti d’arte, è molto forte, astratto e spesso impenetrabile, da un punto di vista psicologico ed estetico.
Valore e forza lavoro nell’opera d’arte
Capisco che l’inafferrabilità, i calcoli impossibili, la bizzarria e tanto altro, sono tutti “messi in conto” in questo rapporto: valore e lavoro nella realizzazione di un’opera d’arte. Però vale la pena di soffermarcisi e fare, anche come tentativo, un’analisi che potesse guardare anche al contemporaneo.
Innanzitutto c’è da domandarsi se chi è disposto a comprare un oggetto d’arte si ponga il problema nel legame prezzo e valore dello stesso, la questione della forza lavoro dovuta: ovvero del tempo impiegato, del sacrificio rispetto a un altro elemento vitale, dell’usura degli organi dell’artista, eccetera. Punto interrogativo necessario. Se sì, entriamoci dentro con cautela. Se il contraente-compratore tenesse in considerazione la quantità e la qualità di forza lavoro diretta e oggettivata insita per esempio (per essere semplici) in un quadro (ma potrebbe essere appunto un’installazione, una performance e via dicendo), non si potrebbe rischiare una omologazione, una categorizzazione (valore-forza lavoro), della tipologia del dipinto? Non potrebbe nascere uno standard, ovvero un prezzo che è indicizzato a un valore/lavoro più o meno uguale per tutti i quadri? Questo forse è l’esempio attuale di certe opere esposte all’Ikea oppure di certi siti cinesi (di produzione industriale stile fordista di quadri), o tornando indietro nel tempo si può pensare ai post-macchiaioli degli Anni Cinquanta-Sessanta livornesi, che battevano trattorie e luoghi di incontro in genere per piazzare le loro marine o nature morte con pesci e frutta, o se vogliamo all’eredità di una certa scuola napoletana. Per non parlare, su altri livelli e contesti, della poetica della serialità di Andy Warhol in America o di Fluxus in Europa. Il valore economico di un oggetto d’arte, in sintesi, si può “ricavare” dai desideri, passioni, manie, ossessioni che un individuo è disposto a scambiare (anche in termini monetari); dunque un desiderio scambiato con un altro desiderio forma il valore.
Ma nel cosmo dell’arte contemporanea (e non) articolare una teoria del valore, e quindi del prezzo di un’opera d’arte è molto complesso. Nell’economia dell’arte, paradossalmente, oggi i contraenti si comportano, secondo studi etnologici sugli uomini primitivi, allo stesso modo: con estrema contrarietà e timore nei confronti dello scambio reciproco. Per vari fattori, la mancanza di una misura dei valori in generale (come è per altri prodotti, pane, computer, latte, eccetera), un mercato pressoché anarchico, e poi, non di poco conto, il fatto che solitamente l’uomo primitivo (come l’artista, la maggior parte degli artisti…) realizza gli oggetti con le proprie mani, e verrebbe così messa in vendita parte, porzioni della propria personalità, che a non tutti piace. Tra il collezionista e il gallerista-mercante-mediatore (e anche l’artista stesso), in una compravendita d’arte, nel caso in cui non ci siano scale di valori-prezzi affidabili e ben regolate, si ripete quasi come un archetipo, ciò che accadeva con lo scambio di certi attrezzi primitivi -anche se oggi l’affare si conclude attraverso il denaro da una parte e l’opera d’arte dall’altra. Ma i meccanismi di questo passaggio hanno molto a che fare con le soggettività, che si rapportano con fattori “antichi” come l’angoscia di perdita di qualcosa di riferibile all’Io (sia da parte dell’artista che da quella del collezionista), effervescenza dell’aspetto feticistico, ansia di vendere-acquistare qualcosa di utile-inutile; insomma una buona mancanza di naturalezza.
“Ma nel senso che si tratta del valore di una merce la quale non ha in sé alcuna ragione per mutare il proprio valore quando la distribuzione muti”. Così scrive Claudio Napoleoni a proposito della merce che non varia la sua “misura invariabile del valore” al mutare della sua circolazione, distribuzione, passaggi vari. Questo è l’esempio di moltissimi oggetti che ci circondano, che appunto non cambiano di valore (o se ciò avviene, è estremamente minimale e irrilevante) al variare della sua stessa distribuzione: per esempio un litro d’olio, un pacchetto di sigarette, un chilo di farina comune, eccetera. Quindi con le opere d’arte come ci comportiamo? Così di primo impulso mi viene da pensare, sulla disamina di Napoleoni – se si può tentare un approccio, un tentativo di analisi -, di avere a che fare con qualcosa di estremamente variabile, con polarità e limiti estremi, una sorta di prisma del valore dell’oggetto d’arte, di un animale a più corna.
Cominciamo con esempi spiccioli. Un quadro che è pubblicato in un catalogo vale più di un altro che non lo è, quindi la distribuzione cartacea ha fatto sì che il valore aumenti. Una esagerata, falsata, millantata carriera e produzione di un artista, osannata in un’asta televisiva, può aumentare momentaneamente il valore di un’opera, ma una volta capita la mascherata, il valore crolla. L’alchimia che costruisce, fa stare in piedi il valore di un’opera è molto complessa, e la letteratura al riguardo è immensa, però merita soffermarsi in certi casi per osservare e studiare la questione. La circolazione delle opere d’arte, lo stesso consumo, per usare un termine povero ma pratico, nel bene e nel male influiscono molto e a vari livelli sul valore dell’opera, quindi riprendendo Napoleoni si può affermare con fermezza che esiste per gli oggetti d’arte, per la propria natura, una “misura iper-variabile del valore” che altri oggetti non posseggono.
Claudio Parrini
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