Dustin Yellin racconta Pioneer Works. Qui New York
Artista, mecenate, visionario... Una conversazione con Dustin Yellin a Red Hook, New York. Nella quale il fondatore di Pioneer Works ci racconta come far diventare realtà una visione. E come la sua personale Weltanschauung può rivoluzionare il mondo dell’arte.
Dustin Yellin, come artista hai una lunga carriera a New York. Da quando vivi e lavori a Red Hook?
Sono nato in California e dopo la High School mi sono trasferito in Colorado, quindi nella Grande Mela da vent’anni. Ho vissuto a Manhattan per dieci anni, ma poi la situazione divenne troppo faticosa, poco spazio, affitti cari. In seguito mi sono spostato a Red Hook. Prima avevo un piccolo studio a due isolati da qui, che si è ingrandito poco dopo. Tre anni fa è nato Pioneer Works. Mi piacciono le utopie e da sempre ho condiviso i miei spazi di lavoro. Questi sono sempre stati aperti a tutti, e spesso condividevo con amici un angolo per dipingere, o il divano per scrivere o per suonare la chitarra.
L’idea di condivisione non si ferma a questo però…
Questo sogno di un grande spazio condiviso con tutti l’ho avuto fin da piccolo. Sono convinto che tanti si sono chiesti il perché non ci fosse uno spazio in cui l’arte e le scienze potessero convivere: un laboratorio di fisica accanto a un museo, uno studio di pittura e una sala di posa accanto a una sala di registrazione. Perché non poter unire tutto ciò in un unico spazio? Perché non aprirlo al pubblico? Perché cosi tante porte chiuse? Da cosa nasce questa scissione settoriale nelle accademie? Sentivo una mancanza di comunicazione tra i diversi dipartimenti e con la comunità circostante. Viviamo in un’era in cui tutto è condiviso, vedi Internet e i social network, tranne purtroppo gli spazi fisici. Le persone s’incontrano sempre meno, invece credo che incontrarsi dovrebbe essere una conseguenza logica della nostra società pluriconnessa.
Secondo la tua opinione, le università e le accademie non offrono più spazi di condivisione e d’interazione? Nessuna comunicazione tra i diversi dipartimenti?
Sì, esatto. Tutto è molto specializzato. Quando vai a studiare arte, studi solo quella, ovvero pittura, scultura, storia dell’arte, ma di certo non imparerai nulla sull’astronomia. Se studi chimica, non imparerai niente a proposito di linguistica, e se ti iscrivi a giurisprudenza non leggerai mai niente di fisica. Viceversa, studiando l’astronomia non studierai l’arte, benché le due materie possano avere punti d’incontro e influenzarsi a vicenda.
Conosco il tuo lavoro, vedo che ci sono riferimenti a diverse scienze e che trai ispirazione da differenti fonti. Non solo la storia dell’arte, ma anche la tecnologia, la fisica, la matematica, la geologia, per citarne solo alcune.
Hai perfettamente ragione. Forse è naïf, ma credo che arte e scienza siano la stessa cosa. Qualche volta si fanno cose che si muovono, altre volte cose immobili. Qualche volta cose che muovono noi, oppure siamo noi a muoverci attorno ad esse. Credo che sia una questione di energia, piuttosto che relegare al classismo il nostro fare. Energia che muove il mondo, che viene utilizzata e applicata. Energia che cambia e ci cambia.
Condivido quindi in qualche modo con le idee di Beuys, che tutto è una scultura sociale, che ognuno è un artista. Tutto è una visione, tutto è connesso, tutto si compenetra. Che mi alzi la mattina e faccia un collage o che corregga un catalogo o che parli con te, non fa differenza. Ho una visione olistica delle cose, è difficile per me percepire una separazione tra le varie attività umane.
In parte hai anticipato anche la risposta alla mia prossima domanda riguardo alla fondazione di Pioneer Works e alla sua programmazione. Vedo che è molto varia: si passa dai più classici studi d’artista e open studio a vere e proprie mostre, da laboratori di tecnologia, cucina e scienze a conferenze e pubblicazioni mensili. Mi racconti un po’ di più?
Pioneer Works è l’incarnazione di quello che ho descritto prima. Uno studio condiviso, uno spazio accessibile a tutti, una grande officina delle idee senza distinzione severa tra le materie. Vogliamo offrire un’esperienza enciclopedica, non la visione di una persona o di un curatore. Vogliamo offrire la possibilità di sperimentare e vivere lo Zeitgeist della nostra esistenza. Abbiamo un calendario di mostre, di residenze, di pubblicazioni. Ospitiamo non solo artisti, ma anche scienziati, musicisti, ingegneri, informatici… L’offerta è molto varia, così come lo è il nostro curriculum. Lo scopo è far comunicare le più diverse idee, persone e materie.
Chi prende le decisioni?
Siamo un grande gruppo, non c’è una vera e propria gerarchia, siamo strutturati in maniera orizzontale. C’è un consiglio di amministrazione e poi le idee e le opinioni di tutti i collaboratori. Parliamo e decidiamo insieme.
È un progetto molto grande, unico anche per una città come New York. Avevi pianificato tutto o è accaduto in modo naturale?
Sì e no. Da anni ho coltivato la mia visione di uno spazio e di un modello di luogo pubblico accessibile a tutti. Non avrei però mai immaginato che potesse accadere cosi velocemente e realizzarsi cosi naturalmente. Tutte le persone che collaborano sono incredibili, come lo sono anche le loro idee. Ecco, direi che una delle cose fondamentali è il braintrust,la fiducia nella fantasia e visionarietà del team, perché fornisce un’energia incredibile e muove tutto nella giusta direzione. Pioneer Works è un’officina di creatività in continuo cambiamento ed espansione, come le onde del mare o il battito d’ala di una farfalla riecheggiante nell’universo.
Come curatrice sono arrivata a New York tre anni fa e, quando ci ho messo piede, ero convinta di trovarvi la culla dell’arte di oggigiorno. Presto ho capito di essermi immaginata una realtà diversa. La New York degli Anni Ottanta, in cui la scena underground era fortissima e sconvolgeva il pubblico, non c’è più. Tribeca, SoHo, il Village sono cambiati. Mi sembra che ci sia tanta arte che guarda al mercato, meno fine a se stessa. Mancano un po’ gli studi e i luoghi di produzione, perché gli artisti non possono più permettersi l’alto costo della vita, almeno a Manhattan…
Ecco, proprio per questa ragione mi sono trasferito a Brooklyn, ed è anche la ragione per cui questo incredibile progetto sta vivendo un momento molto felice. E ti dico di più, stiamo costruendo non solo un luogo, ma un modello, sperando di esportarlo anche in altri Paesi. Pensavo mi ci sarebbe voluto un decennio per arrivare dove siamo ora, invece l’abbiamo realizzato in soli tre anni. E tutto questo lo dobbiamo all’energia che dimora a Brooklyn, alle persone che contribuiscono attivamente, che arrivano da tutto il mondo. È come un grande nido dove la gente s’incontra e trova accoglienza.
Cosa ne pensi dell’equazione New York = centro dell’arte?
Il centro dell’arte è dentro di noi, nella nostra mente, nel nostro corpo. Non c’è un centro fisico, non è soltanto uno, tutto può essere centro. Forse ti riferisci a “centro” in relazione al mercato dell’arte? Di certo New York ne è un nodo nevralgico, come lo sono Berlino, Londra o Parigi. Ritornando all’olistica, la mia definizione di “centro” parte ancora da quella Weltanschauung.
Mi piacerebbe conoscere la tua opinione sull’arte pubblica a New York.
Non ce n’è mai abbastanza e ne abbiamo bisogno sempre di più. Più spazi verdi, più alberi, più topos della comunicazione, più arte.
E cosa ne pensi delle scelte fatte?
Non sono io colui che ha scelto, e non vorrei commentare. Io so bene cosa farei in qualità di curatore, e questo è sufficiente. Non c’è bisogno che dia la mia opinione riguardo a decisioni già prese.
E lo sviluppo di Red Hook? Sta crescendo velocemente e in maniera pluridirezionale. Si potrebbe dire che è uno dei quartieri più in voga in questo momento. Pioneer Works s’impegna molto per la sua comunità e per la riqualificazione urbana. Cosa speri che accada o non accada?
La gentrificazione è un argomento molto discusso a New York. Non la puoi fermare, e nemmeno controllare. Brooklyn è come Manhattan, e tutta Brooklyn diventerà come Manhattan.
Quello che vogliamo fare noi è lavorare con la comunità per la comunità. Educare dei giovani, lavorare con i bambini, offrire qualcosa agli abitanti del quartiere. Vorremmo diventare e rappresentare un punto d’incontro e di riferimento per coloro che vivono qui e assicurare che le nostre porte siano sempre aperte a tutti.
Altri progetti? Altre visioni?
Energia gratuita, acqua e aria pulite! Al di là di questo, ora vorrei essere sicuro che questo progetto proceda nel modo più fluido, vorrei coinvolgere più persone possibile e dimostrare con l’arte che la differenziazione tra le nazioni, tra le etnie e in base alla provenienza culturale è totalmente antiquata. Vorrei che Pioneer Works servisse per aprire gli occhi a tutti.
Ultima domanda. Pensi che Pioneer Works colmi una lacuna di responsabilità del Governo?
Di principio, non penso a quello che gli altri non fanno. Di conseguenza non penso a cosa dovrebbero fare. Tutti possono fare qualcosa, tutti possono fare di più: il comune può fare di più, il governo può fare di più, gli artisti, i galleristi, i collezionisti, il pubblico. È importante che ognuno s’impegni in qualcosa e che questa cosa sia per il meglio. Non possiamo sempre riversare le responsabilità a terzi: è molto più costruttivo cercare di trovare delle soluzioni piuttosto che stare sempre a criticare.
Sarah Corona
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