Venezia Updates: Davide Ferrario e l’utopia del progresso industriale. L’Italia che era e che non sarà, fra storie di ingegno, cultura, operosità
“C’è stata fin dall’inizio l’idea di costruire una sorta di controcanto letterario alle immagini. Parole che confermassero un certo spirito dei tempi oppure se ne dissociassero, per creare una dialettica.” Questo racconta Davide Ferrario a proposito del suo pregnante documentario “La Zuppa del demonio”, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema. Il titolo, molto suggestivo, […]
“C’è stata fin dall’inizio l’idea di costruire una sorta di controcanto letterario alle immagini. Parole che confermassero un certo spirito dei tempi oppure se ne dissociassero, per creare una dialettica.” Questo racconta Davide Ferrario a proposito del suo pregnante documentario “La Zuppa del demonio”, presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema. Il titolo, molto suggestivo, si riferisce al termine usato da Dino Buzzati nel commento a un documentario industriale del 1964, “Il pianeta acciaio”, per descrivere le lavorazioni nell’altoforno.
Il tema del film – come sostiene lo stesso regista – è “l’idea positiva che per gran parte del Novecento (almeno fino alla crisi petrolifera del 1973-74) ha accompagnato lo sviluppo industriale e tecnologico.” Le immagini che mostrano ruspe sradicare ulivi centenari per costruire il tubificio di Taranto, oggi parte dell’Ilva, a noi fanno inorridire, ma all’epoca i filmati erano percepiti con la convinzione che il progresso e la tecnica avrebbero reso il mondo migliore. Per ricostruire tutta la storia sono stati usati i materiali dell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa d’Ivrea, dove sono raccolti cento anni di documentari industriali di tutte le più importanti aziende italiane.
Il film è così il risultato di un affascinante lavoro di ricerca, scelta, missaggio e montaggio, effettuato con sapienza ritmica, rispetto filologico e sensibilità estetica. Capace di generare pathos nel più scettico degli spettatori, il film di Ferrario avrebbe tranquillamente potuto concorrere al Leone d’Oro sia per l’importanza del tema, sia per la maniera in cui se ne occupa. La grazia e il composto coinvolgimento espresso dagli intellettuali, che all’epoca facevano parte del dibattito pubblico e scrivevano anche per i film industriali, non può non colpire. L’Italia che non c’è più non è soltanto quella industriale, ma anche quella dell’intellighenzia di un Paese. Ascoltare sulle immagini gli estratti di Pasolini, Sciascia, Fortini, Toffetti, non solo esprime lo spirito di un’epoca trascorsa, ma in qualche modo indica il fallimento della nostra, così priva di menti lucide a descrivere e spiegare cosa accade.
Il film industriale è anche una fonte che illustra come il cinema d’impresa abbia rappresentato nel corso del Novecento un settore importante della politica industriale, affrontando aspetti vari della vita aziendale: la produzione,- con le catene di montaggio, i film di formazione per i lavoratori, la documentazione dei sistemi produttivi e dei prodotti, il rapporto con i consumatori attraverso la pubblicità e dunque l’evoluzione dei modelli di società. “La fabbrica”, allora, non voleva essere soltanto luogo di lavoro: era attenta ai rapporti umani e diventava un utero totalizzante che includeva molteplici aspetti della socialità, del tempo libero, dell’educazione e del divertimento per i ragazzi, delle attività sanitarie e assistenziali.
“La zuppa del demonio” è un film su come eravamo e non saremo più. Ma è anche una stella verso cui cui orientare un futuro più costruttivo.
– Federica Polidoro
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