Bianco come un cencio. Il palio di Francesco Carone
Siamo a Siena, dove il 16 agosto scorso si è svolto il Palio dell'Assunta. Un appuntamento che si accompagna alla presentazione del "drappellone", la cui realizzazione quest'anno è stata affidata a Francesco Carone. Scelta alquanto insolita. Che l'artista ha saputo riempire di significati.
Percezione
Il Palio che Francesco Carone ha realizzato per la corsa dell’Assunta (16 agosto) di quest’anno lavora su più fronti e in più direzioni. La principale, quella che muove tutte le altre, è legata alla percezione. Il palio, da lontano, appare infatti completamente bianco: così è sembrato anche il giorno della presentazione ufficiale, davanti alla folla raccolta nella corte del Palazzo Pubblico e in piazza del Campo. È questa la causa prima del silenzio che è calato in quell’occasione, durante i primi attimi.
Il silenzio è stato una preparazione all’Altro, l’orizzonte di un’attesa, e al tempo stesso l’esperienza di una dimensione differente rispetto a quella abituale. A Siena c’è un detto, che trasmette bene il valore simbolico e immaginario del Palio per la comunità cittadina: “Bello o brutto, a me mi va bene anche bianco!”. Il Palio di Carone accontenta ironicamente – un’ironia però molto più vicina all’accezione “seria” del Rinascimento che non a quella leggera del postmoderno – questa iperbole, e la trasporta immediatamente su un piano superiore. È come se l’artista avesse accompagnato il suo pubblico e i suoi spettatori in un passaggio delicatissimo “attraverso lo specchio”, in un percorso che non è affatto normale per i canoni e le convenzioni attuali. Quello che stiamo guardando è infatti un fantasma.
Trasfigurazione
Il fantasma è l’unica figura che condensa presenza e assenza. Il fantasma è intangibile, ma occupa e possiede il livello percettivo. Questo movimento, che colmando la distanza fisica svela man mano i dettagli, la composizione, i volumi e i rapporti, è la metafora e al tempo stesso la prefigurazione di un movimento ulteriore. Mentale.
Il movimento dalla superficie alla profondità: quest’opera è un’esortazione, un modello, un progetto. Indica ai senesi e agli italiani una via per non accontentarsi, per andare oltre le apparenze e il “già dato”, per conoscere. E non è un caso se questo aspetto, così esoterico e trascendentale, sia stato immediatamente colto dalla maggioranza degli spettatori (senza bisogno del libretto di istruzioni…).
L’argomento e lo strumento è la trasfigurazione. È all’opera nei crini di cavallo che “mimano” l’aureola della Madonna. È in azione negli occhi bianchi, senza iride, della Madonna, che suggeriscono un’altra dimensione del vedere. Si irradia nei tanti dettagli, rimandi e collegamenti, nei materiali e negli intrecci di significato. La trasfigurazione è il doppio senso di questa “visione”.
Condivisione
Ma quest’opera è sorprendente anche perché agisce su un contesto ben preciso, al di là e al di qua delle retoriche relazionali a cui siamo così assuefatti. Un contesto sia spaziale che storico, legato alla comunità con i suoi riti e con la sua mentalità, alla tradizione artistica senese, alla sequenza dei drappelloni del passato, alle aspettative individuali e collettive.
Qui c’è un pubblico, e molto esigente. Il pubblico, che è pressoché scomparso dalle dinamiche e dalle funzioni dell’arte contemporanea (così concentrata sul “sistema”, e sui suoi aspetti), quel pubblico che non condiziona ormai più alcuna decisione e valutazione all’interno del mondo artistico, ricompare qui come per magia. C’è sempre stato, in realtà. Non è il “pubblico”, sono persone che vivono la vita del mondo. La magia sta nella meraviglia che questo palio ha saputo suscitare: anche questa, una sensazione piuttosto desueta.
C’è un’aderenza e una saldatura misteriosamente coerente tra cultura alta e cultura popolare – e secondo Ermanno Olmi, giustamente, gran parte dei mali che affliggono la produzione culturale italiana hanno origine nel punto in cui questi due livelli si sono separati e dissociati.
Questo “cencio” è la prova – la prima, forse, dopo tanti anni… – di come innovazione e tradizione non siano affatto due elementi in contraddizione tra loro, ma costituiscano due aspetti del medesimo processo. Questo cencio è un punto di ripartenza, in cui si saldano frammenti, opzioni e idee che da lungo tempo si agitano più o meno sotterraneamente nel panorama nazionale, e che qui hanno trovato finalmente una forma compiuta.
Come scrive Carla Benedetti nel suo ultimo saggio, Disumane lettere: “Occorrerà allora ridare un nome a ciò che da tempo non si sa più nominare. Oggi le grandi opere sono diventate doppiamente ‘irragionevoli’. Non le si deve strappare solamente ai limiti della vita umana, ma anche a quelli alzati dalla cultura dominante e da tutti i suoi meccanismi ciechi. Ma per la stessa ragione la verticalità viene anche ad avere oggi una forza doppia, due volte inarresa, doppiamente commovente, trascinante, rigenerante”.
Christian Caliandro
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