Sul Codex Seraphinianus di Luigi Serafini. Che ora diventa un film
“Luigi Serafini, Grand Rectum de l’Université de Foulosophie”: sarà proiettato il 14 e il 17 ottobre al Festival du Nouveau Cinéma di Montréal il lungometraggio di François Gourd e Mélanie Ladouceur sull’artista italiano che ha incantato il mondo con la sua visionaria fantaenciclopedia. Lo abbiamo incontrato per ripercorrere il “Codex” in attesa delle proiezioni.
Domanda surrealista: dopo che lei ha risposto io le dico qual era la domanda. Luigi Serafini (Roma, 1949) è titubante: “Ma nel ‘cadavere squisito’ surrealista non dovresti darmi una traccia?”. Qualche attimo di esitazione, dopo di che la penna dell’artista traccia spedita dieci parole. La grafia incostante e un po’ tremolante fornisce qualche idea sul perché Serafini abbia finito, in una delle sue opere più note a livello internazionale, per inventare una lingua tutta sua. Le lettere della parola ‘blocco’ sono separate l’una dall’altra, quelle della parola ‘psichico’ sono piuttosto intrecciate. Serafini è un cadavere squisito, fa della sua individualità un lavoro di gruppo.
Ad ogni modo: “Un blocco psichico accompagnato da un canto lirico di upupa”. La domanda era: “Che cos’è l’enciclopedia?”. E in effetti l’enciclopedia, tendendo a fissare il sapere di una data epoca, ha un aspetto statico, non fosse altro che per il peso dei volumi dell’Utet. Nell’ansia di imbrigliare il mondo in categorie ri(con)ducendo l’ignoto al già noto, è il blocco psichico di una società (benché la follia della classificazione alfabetica permetta gli incontri più bizzarri, simili a quello di “una macchina per cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio”di Lautréamont). “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”, diceva Amleto, ma la moderna enciclopedia non era ancora stata inventata.
Possiamo immaginare che il canto lirico di upupa d’accompagnamento sia il controcanto di Serafini ai volumoni in questione: l’artista ha realizzato una sua divertente fantaenciclopedia in cui l’accento è posto sull’aspetto dinamico e trasformativo del contenuto, che è tutto un brulicare d’inchiostro e di curiose metamorfosi grafiche. Il Codex Seraphinianus, edito nel 1981 da Franco Maria Ricci, sfugge alle classificazioni. Benché le immagini abbiano il chiaro guizzo surreale, il rigoroso incasellamento enciclopedico le priva persino della familiarità dell’onirico. Non aiutano le didascalie, in una lingua inventata che non traduce alcuna lingua esistente o esistita, benché assolvano alla loro funzione di testi-moniare l’immagine.
Il Codex è stato messo in parallelo con opere di Escher o Hieronymus Bosch e può essere accostato alla scrittura automatica surrealista e al metodo paranoico-critico di Dalí, ma il suo vero precedente è un libro addirittura più misterioso: il manoscritto Voynich, codice illustrato risalente al XV secolo il cui sistema di scrittura non è ancora stato decifrato e le cui immagini rappresentano vegetali ignoti o mai esistiti. Poco meno misterioso il Codex che, se in teoria ha il vantaggio di poter essere raccontato dal suo autore, è frutto di un lavoro “automatico” la cui vera sorgente creativa è da collocarsi, a detta di Serafini, nel gatto che gli faceva compagnia durante la realizzazione (si ritiene che i gatti abbiano un rapporto privilegiato con l’ambito sottile).
Per quanto riguarda le cause esteriori, l’artista afferma che l’opera è nata sull’onda di un viaggio in California, dove lo aveva contagiato lo spirito comunitario degli hippie: “In Italia volevo fare qualcosa con quello stesso approccio visionario e giocoso, ma che fosse anche facile da far circolare, da diffondere”. Non un’opera da museo, insomma, ma un libro. E se all’epoca ci fossero stati i blog, un blog. Per quanto riguarda le cause profonde, le risposte sono “serafiniane”: dal gatto, all’alimentazione degli studenti, alla salmonella nell’Adriatico, motivo dello sguardo inquietante dei suoi pesci-occhi (“Quindi ‘Codex’ si riferisce alle note capsule di fermenti lattici?”). Ecco un tipico esempio. Domanda: “Nel saggio che le ha dedicato, Italo Calvino nota che tre immagini scatenano maggiormente il suo ‘raptus visionario’: l’arcobaleno, l’uovo e lo scheletro, che vediamo ad esempio in attesa della sua ‘tunica di pelle’. I riferimenti esoterici sono sempre merito del gatto o lei ha una passione/delle conoscenze in merito?”. Risposta: “Più che all’uovo filosofico tendo a pensare alla pasta al tonno, che abbonda nella dieta dei giovani che vivono fuori casa. Anche l’uovo abbonda”.
Calvino prosegue invece così: “Lo scheletro si direbbe il solo nucleo di realtà che resiste tal quale in questo mondo di forme intercambiabili”. Per il resto è tutto un divenire, animato da un’ironia che non risparmia nessuna creatura e da piccolissimi corpuscoli in forma di stringhe danzanti (parallelismi con la composizione musicale sono stati evidenziati dall’esperto di intelligenza artificiale Douglas Hofstadter e da un coreografo francese che ne ha tratto ispirazione). “Mi ricordo il giorno e la circostanza in cui ho iniziato l’opera, nel 1976”, racconta Serafini. “Mi chiama un amico e mi dice: passo a prenderti che andiamo al cinema. E io senza sapere bene perché gli dico: no resto a casa, devo fare un’Enciclopedia”. L’artista mette giù il telefono e comincia a disegnare e scrivere, riga dopo riga, “didascalie immaginarie, scivolando in automatico. Una tavola dopo l’altra, senza sbagliare mai, per giorni, settimane, mesi”, ciò che avrebbe fatto arrabbiare Florenskij. “Sbaglia e induce in errore l’artista che ci offre tutto ciò che in lui affiora quando è preso dalla sua ispirazione”, scrive il teorico dell’arte russo, “perché non si tratta che di immagini della salita”, ovvero del mondo psichico: le “scaglie dell’anima”, gli “abiti dell’esistenza diurna” di cui l’artista si spoglia nel sollevarsi dal mondo terreno.
Una sincera ispirazione, quella di Serafini, una “salita” e uno sforzo enorme: tentare una catalogazione del mondo incoerente delle forme intermedie. La seduzione esercitata è quasi religiosa (la promozione della sfera psichica a massima realtà spirituale del mondo contemporaneo gioca la sua parte). Un senso di libertà assoluta pervade le figure, non soggette alle leggi del mondo grossolano, e questa liquidità è ciò che l’uomo, incamminato verso la dissoluzione nello psichico, cerca oggi nella “flessibilità”, nella sessualità e nelle frequenze dell’etere virtuale. La lingua cade perché non ha senso designare una mela, se l’attimo dopo è diventata un’albicocca. L’alfabeto inventato di Serafini non designa, accredita col suo solo esserci, come le lettere che diventano brand.
Se da un lato la visionarietà imprevedibile dell’artista scalfisce la pesante solidificazione del sapere scientifico, dall’altra la riduzione del segno al solo significante privo di significato incarna, spingendole alle logiche conseguenze, le tensioni del sistema culturale odierno alla definitiva rinuncia a ogni contenuto, che nel migliore dei casi serve come porta d’ingresso a un circuito – chiuso e sconfinato – di segni che si rimandano a vicenda. “È la cultura intesa come ufficializzazione di tutto in termini di segni e di circolazione di segni […], l’immensa impresa di stoccaggio estetico di tutte le forme che ci circondano” (Baudrillard).
Ma il Codex è anche, chiaramente, uno sberleffo a questa “trascrizione di tutto in termini culturali, in segni museografici. E ricordiamolo”, aggiunge Serafini, “il ‘Codex’ è un gioco” (ma come il gioco surrealista, noi lo abbiamo preso estremamente sul serio).
Alessandro Paolo Lombardo
François Gourd & Mélanie Ladouceur – Luigi Serafini, Grand Rectum de l’Université de Foulosophie
43. Festival du Nouveau Cinéma di Montréal
www.nouveaucinema.ca
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