Galeotto fu Fontana. La Verona di Hélène de Franchis
Da quasi quarantacinque anni Hélène de Franchis è la titolare della galleria Studio La Città. La storia del prestigioso spazio veronese inizia nel 1969, quando una napoletana arriva nella città scaligera… Prosegue così la serie delle interviste ai grandi galleristi d’Italia che Artribune Magazine ha iniziato nel 2012.
Perché una napoletana ha aperto una galleria proprio a Verona?
Verso la fine degli Anni Sessanta ero da poco sposata e abitavo in Inghilterra. Mi sono laureata a Roma nel 1964. All’inizio del 1968 un mio caro amico grafico e illustratore, Stepán Zavrel, con il quale avevo studiato e lavorato facendo cartoni animati a Londra, venne a trovarci e mi disse che dei notabili di Verona volevano aprire in città una galleria d’arte e che lui aveva pensato a me come potenziale direttrice della stessa.
Quale fu la tua reazione?
All’inizio ero piuttosto riluttante, o meglio non m’importava nulla di trasferirmi in un luogo dove non conoscevo nessuno e che mi era perfettamente sconosciuto, se non da un punto di vista storico. Dopo un anno e mezzo Stepán tornò alla carica, dicendomi che avevano trovato lo spazio e che io avrei dovuto scegliere le luci e preparare un programma per la nascitura galleria. Mio marito mi spinse ad affrontare quella strana avventura, così sono tornata in Italia. Ero priva di esperienza, totalmente ignara del mondo del commercio artistico e per giunta non conoscevo la difficile realtà della provincia italiana.
Perché quei “notabili” volevano aprire proprio una galleria d’arte contemporanea?
Questo l’ho scoperto dopo. Erano tutti personaggi di area democristiana, molto importanti e conosciuti nel territorio. Volevano dare un servizio, fare un gesto culturale per Verona e per questo avevano deciso di chiamarla Galleria La Città. Quando poi, dopo neppure un paio d’anni, ho rilevato io la galleria, ho scelto di continuare a chiamarla con lo stesso nome, solo ho voluto che diventasse Studio La Città.
Con quale mostra fu inaugurata la galleria?
Nel 1969 avrei voluto iniziare con una personale di Lucio Fontana, che avevo conosciuto giovanissima a Roma e che era morto da un anno. Penso sia stato lui il responsabile della mia scelta vita.
Come l’avevi conosciuto?
Avevo fatto il liceo in Africa, mio padre era diplomatico e alla fine del 1959, fatta la maturità, tornai in Italia, a Roma. Ero iscritta a Lettere ma andavo in via Ripetta all’Accademia di Belle Arti, perché mi incuriosiva quell’ambiente. E lì sentii per la prima volta parlare di Fontana. Così sono andata alla Marlborough a vedere la sua mostra. Quelle opere mi hanno sconvolto e affascinato a tal punto che, dopo due giorni, sono ritornata a vedere la mostra. A un certo punto da una stanza è uscito un signore elegante, gentile affascinante, che di quelle opere sapeva tutto: era Lucio Fontana. Abbiamo parlato e mi spiegò cos’era il Concetto Spaziale. Un’altra volta l’ho incontrato, sempre alla Marlborough, dove abbiamo parlato di Yves Klein, un altro artista che mi aveva creato molti punti interrogativi.
Torniamo al 1969…
Appena tornata in Italia mi sono precipitata appunto alla Marlborough, da Carla Panicali, che conoscevo in quanto direttrice della galleria, e le ho raccontato tutta la storia. Le ho detto che volevo iniziare la mia avventura con Fontana. “Che problema c’è?”, mi ha risposto aprendomi la porta di una stanza in cui c’erano tutte le tele di Fontana, ordinatamente collocate negli scaffali. Mi disse semplicemente di scegliere. Oggi una cosa del genere sarebbe impensabile: io ero poco più di una ragazzina e la galleria esisteva solo sulla carta. Mi ha proposto di far vedere ai miei referenti veronesi gli ultimi multipli che Fontana aveva realizzato per Rosenthal: uno bianco, uno nero, uno d’oro opaco e uno d’oro lucido. Ha messo quello bianco e quello nero nella loro scatola di legno e me li ha consegnati. L’unica raccomandazione è stata quella di non abbandonarli neppure un attimo, durante il lungo – durava allora otto ore! – viaggio in treno che da Roma mi portava a Verona. E così ho fatto.
Ai referenti veronesi sono piaciuti?
Naturalmente no. Non li hanno capiti e mi hanno proposto di metterli in bagno. Piccata, li ho rimessi nelle scatole e ho telefonato alla Panicali, perché volevo rimandarglieli. Lei mi ha detto di pazientare – non potevo partire con Fontana, era troppo – e di tenermi quei due splendidi oggetti che avrei potuto pagarle con calma: il bianco e il nero costavano 111mila lire e i due oro 129mila. Quello bianco è ancora appeso in casa mia…
Chi è stato il primo artista che hai esposto, una volta accantonato Fontana?
Luigi Spazzapan, un bravo artista. Decisamente più abbordabile per loro e per la città.
La mostra di Fontana però poi l’hai fatta.
Sì, nel 1973. Poi ho continuato a lavorare con la Marlbourogh. Una volta l’anno facevo una mostra che mi veniva da loro: Dorazio, Novelli e altri.
E i tuoi referenti?
Abbiamo rotto nel maggio 1970, quando ho deciso di mostrare Gianni Colombo (aveva appena vinto il Leone d’oro alla Biennale): poche opere, molta luce. La situazione si era fatta insostenibile. Per loro era davvero troppo. Verona era una città difficilissima e in parte lo è ancora adesso. Io ero radicale, incapace di compromessi. Mi sono presto resa conto che vendere è difficilissimo.
Non c’era proprio nessuno che comprava?
C’erano due collezionisti che compravano in società: Mario Orsatti e Luciano Antonini. Erano entusiasti, preparati. Avevano acquistato un appartamento, dove esponevano la loro collezione in maniera contemporanea. Possedevano Rothko, Reinhardt, Rauschenberg, Fontana, Paolini, Kounellis, Jim Dine, Mattiacci ecc. Grazie a loro ho potuto sopravvivere. Andavamo insieme a New York. Là era tutto diverso, non c’erano tantissime gallerie ma moltissimi artisti interessanti (Ryman, Mangold, Sol LeWitt, Lucio Pozzi, Rosenthal, Matta Clark…). Ho capito che dovevo uscire da Verona per continuare a lavorare come piaceva a me. Così ho iniziato a pensare di partecipare alle fiere internazionali. La prima è stata Düsseldorf, nel 1973. Aveva appena aperto i battenti. Nel 1974 ho iniziato con Art Basel, che ho fatto tutti gli anni sino al 2011. Nel 1975 ho iniziato con Artefiera di Bologna. Man mano capivo che stavo facendo la cosa giusta. In galleria invitavo artisti internazionali: inglesi, americani. Comunque non mi ponevo più di tanto il problema del mercato: erano tempi molto diversi da quelli odierni.
Qualche anno fa hai deciso di non andare più alle fiere: una scelta controcorrente o una mossa geniale?
Non so. Oggi è tutto cambiato: il divertimento, l’interesse, l’entusiasmo delle fiere è diventato un’altra cosa. Negli Anni Settanta c’era un entusiasmo culturale che oggi non c’è più. Ho impiegato due anni per decidere di smettere di fare Basilea, ma poi ho deciso. È una fiera difficilissima, di business duro. La concorrenza con i giganti è impossibile. Io sono sola, non sono una multinazionale. Ho pensato che avevo il diritto di farlo. Vorrei cercare di impegnare il tempo professionale che mi resta facendo quello che m’interessa e quello che mi piace. So di concedermi un lusso, ma sto facendo cose che mi danno maggiore soddisfazione. Vorrei lavorare in modo più intenso con alcuni artisti, magari anche con artisti nuovi: la curiosità non mi manca.
Dunque, hai chiuso una stagione e ne hai aperta un’altra?
Ora, quando vado alle fiere, posso guardare le cose con occhi imparziali, vedo vecchi amici, nuove proposte, non sono più angosciata dal dover vendere per rientrare nelle spese.
È come guardare lo stesso panorama da un altro punto di vista. E oggi c’è un’inflazione di fiere…
A mio parere – mi sbaglierò – una situazione di questo tipo non può durare. Sopravvivranno pochissime fiere, quelle multinazionali.
Negli anni, sulle pareti della tua galleria (che ha cambiato tre sedi a Verona, per giungere a quella odierna, spaziosa, luminosa, direi museale) si sono avvicendati alcuni fra i più importanti autori italiani: da Piero Manzoni a Mario Schifano, da Michelangelo Pistoletto a Giulio Paolini. Il Minimalismo, tuttavia, è stata per molto tempo e in parte ancora adesso una parola chiave delle tue scelte programmatiche. Negli Anni Settanta con Sol LeWitt, Robert Mangold, Robyn Denny, e a partire dagli Anni Ottanta con Herbert Hamak, Ettore Spalletti, John McCracken, David Simpson, Max Cole, Stuart Arends, Lawrence Carroll…
Negli Anni Ottanta Concetto Pozzati mi chiamava con ironia l’“astrattologa”. Aveva ragione.
Sei stata identificata per molto tempo come la galleria di riferimento di uno dei più noti collezionisti del mondo, Giuseppe Panza di Biumo.
So che in molti lo hanno pensato, ma non è vero. Addirittura si diceva che fossi il braccio commerciale di Panza: niente di più sbagliato.
Raccontaci la tua versione.
Avevamo gusti molti vicini. Ognuno di noi scopriva le cose durante i suoi viaggi e a volte capitava che fossero le stesse. Negli Anni Ottanta, in una fiera in Germania, credevo di aver scoperto un artista che poteva piacere a Panza: era Lawrence Carroll. Una volta tornata in Italia, l’ho chiamato per dirglielo e lui mi ha detto che, certo, gli piaceva molto, infatti possedeva già dodici opere sue. Così è andata per Emil Lukas: quando ho cominciato a venderlo, lui lo conosceva già. Ognuno faceva i propri percorsi, ma alla fine ci trovavamo quasi sempre d’accordo. Penso che Panza sia stato uno dei collezionisti più importanti che ho conosciuto. Aveva un modo di amare l’arte che mi si addiceva. Era silenzioso, riservato, un uomo veramente speciale.
Quando lo hai conosciuto?
La prima volta che l’ho visto, all’inizio dei Settanta, era a Düsseldorf, nella galleria di Konrad Fischer, dove c’era una grande mostra di Carl Andre. Una mostra a mio parere invendibile, bellissima ma troppo difficile. Ero abituata a Verona. Stavo chiacchierando con Konrad quando è entrato un signore minuto e assai garbato. Fischer mi chiede se lo conosco. Io gli dico di no. Lui mi risponde di segnarmi il suo nome. In mezz’ora quel riservato signore ha comprato tutta la mostra: era Giuseppe Panza.
Cosa ti è interessato del lavoro che hai fatto nel corso degli anni?
Volevo fare ciò che mi piaceva: l’arte poteva aiutarmi a capire il mondo. Non ho l’animo della collezionista, riesco a staccarmi dalle cose. All’inizio ero talebana, poi, con il passare del tempo, ho smussato gli angoli, sono diventata più saggia. Ho capito che non è sempre necessario cercare il pelo nell’uovo e che è interessante avvicinarsi anche a cose che a prima vista, esteticamente, non piacciono neanche tanto, che non fanno parte del tuo universo estetico. Sempre più voglio capire il significato delle cose, andare in profondità.
Negli ultimi tempi hai spaziato in mondi altri, dall’Africa all’India al Giappone… Per ragioni familiari vieni da un mondo multiculturale: sei figlia di un diplomatico, sei nata in Marocco, anche se da una famiglia italiana, e sin da piccola hai viaggiato molto…
Da ragazza ho vissuto in Siria, in Messico, in Rhodesia. Mio padre ha educato me e i miei fratelli a cercare di comprendere le diversità con un atteggiamento di grande apertura. Lui sosteneva che in un Paese nuovo bisognava arrivare lentamente e capire dove si stava andando. Mi rendo conto che è una dimensione ottocentesca.
Un po’ da Grand Tour, l’antiturismo per eccellenza. Il viaggio ha segnato fortemente la tua vita?
Decisamente. Mi piace molto viaggiare.
Tra l’altro tu sei riuscita a portare parecchi artisti italiani in alcune grandi collezioni internazionali. Nel museo di Sindelfingen, fondato dai coniugi Schaufler, c’è molta arte italiana e tu sei la principale responsabile di quelle scelte.
Diciamo di sì, anche perché sono collezionisti straordinari. Abbiamo tuttora un rapporto di reciproca fiducia, rispetto e amicizia.
Durante la mostra del novembre scorso, dedicata all’arte italiana presente nella collezione, la stanza di Ettore Spalletti era straordinaria.
Certo, perché è straordinario il collezionista. Anche a Los Angeles e a New York ho fatto mostre di artisti italiani, all’interno di gallerie di colleghi americani.
Anche alle fiere sei riuscita a imporre gli italiani?
Lì è piuttosto difficile. Alle fiere si devono portare opere vendibili, per ovvi motivi economici, e gli artisti italiani non lo sono sempre. Claudia Gian Ferrari, mia cara e rimpianta amica, sosteneva – e io sono d’accordo con lei – che noi galleristi italiani siamo obbligati a portare gli stranieri perché ci manca la sponda dei musei che dovrebbero sostenere gli artisti italiani.
Negli ultimi anni hai dedicato molto spazio alla fotografia, anche se per te non è una nuova scoperta. Avevi esposto Ghirri, che hai conosciuto in tempi non sospetti negli Anni Settanta. È un linguaggio che ti affascina?
Amo molto la fotografia. Da ragazza facevo la fotografa. Mi incuriosiva la proporzione, la composizione, il modo di guardare, i vari effetti della luce. Da quello ho imparato molto. Credo di saper allestire una mostra perché so accostare le cose, ho il senso dello spazio. Credo di dovere tutto questo alla fotografia. Capisci così perché mi piace un artista come Vincenzo Castella.
Se dovessi riassumere questi quarantacinque anni cosa potresti dire? Che questo lavoro ti ha insegnato a guardare il mondo con un occhio diverso?
Certo, e anche a capire meglio quello che mi piace, a capire chi sono. Non sono stata solo io a fare un servizio all’arte, ma l’arte ha fatto un grande servizio a me.
Angela Madesani
STUDIO LA CITTÀ
Lungadige Galtarossa 21 – Verona
045 597549
[email protected]
www.studiolacitta.it
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
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