Festival del Film di Roma. Il Marc’Aurelio del futuro va a Alexey Fedorchenko. Premiato il realismo poetico di un siberiano
Alexey Fedorchenko è nato in Siberia a metà degli anni ‘60. Dopo gli studi in ingegneria, ha lavorato a progetti di difesa spaziale in una fabbrica di Ekaterinburg, un tempo conosciuta come Sverdlovsk. È questo un dettaglio che in qualche modo deve aver influito sulla sua cosmogonia cinematografia. Nel 1990 è diventato amministratore e poi […]
Alexey Fedorchenko è nato in Siberia a metà degli anni ‘60. Dopo gli studi in ingegneria, ha lavorato a progetti di difesa spaziale in una fabbrica di Ekaterinburg, un tempo conosciuta come Sverdlovsk. È questo un dettaglio che in qualche modo deve aver influito sulla sua cosmogonia cinematografia. Nel 1990 è diventato amministratore e poi vice-direttore dello Sverdlovsk Film Studio. Ha marc tudiato drammaturgia all’Istituto statale panrusso di cinematografia e ha scritto sceneggiature per documentari premiati in numerosi festival internazionali. Dal 2000 a oggi ha partecipato alla produzione di più di ottanta film. Nel 2012 ha portato al Festival di Roma lo straordinario Celestial Wives of the Meadow Mari, che anche noi avevamo apprezzato parecchio, ma aveva già ottenuto il riconoscimento della critica a Venezia nel 2010 con Silent Soul.
Fu proprio Marco Müller a portarlo per primo in Italia col mokumentary First on the Moon, allora miglior documentario della sezione “Orizzonti”. Su proposta del Direttore Artistico Müller, Alexey Fedorchenko è stato quest’anno il primo a ricevere il Marc’Aurelio del futuro, in quanto “figura tra le più originali nel panorama della produzione russa del Terzo Millennio”. E non si è certo smentito con la pellicola proiettata in concomitanza alla consegna del premio, Angely Revoluciji (Angels of Revolution). Il film, ambientato in Unione Sovietica, racconta l’incontro e lo scontro fra differenti culture durante gli anni Trenta di Stalin, attraverso lo sguardo di cinque artisti d’avanguardia, spediti a fare da agit-prop nelle regioni periferiche. È il 1934; c’è del marcio nel nord dell’Unione Sovietica. Gli sciamani di due popolazioni indigene, gli Ostiachi e i Nenci, non ne vogliono sapere di accettare la nuova ideologia. Per conciliare due culture lontane, cinque artisti – un compositore, uno scultore, un regista di teatro, un architetto costruttivista, un regista di fama – partono alla volta della Siberia, per raggiungere le foreste intorno al grande fiume Ob.
Fedorchenko è uno che le cose le vede in una prospettiva tutta diversa da qualsiasi altra vista prima. Ha una grande attenzione per la composizione dell’inquadratura, che quasi sempre è un vero e proprio quadro. Da una parte si fa rappresentante di culture lontane, dimenticate e ormai agonizzanti, di fronte alla prepotenza di una pretesa modernità, figlio egli stesso dei popoli di cui parla. Dall’altra, è evidente la sua vocazione etnico-antropologica tesa a classificare, mostrare e tutelare il grande patrimonio culturale di una regione remota dell’umanità. Ai limiti della poesia, tra levità e senso dell’umorismo, ha affrontato grandi problemi esistenziali. Raccontando con ineffabile delicatezza delle quotidianità isolate, così lontane da essere un po’ mito e un po’ leggenda, ma sempre vivide e pulsanti.
Federica Polidoro
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