International Biennial Association Summit. Tra neoliberismo e rivoluzione
Nella città dei Beatles, sede della prima biennale britannica, Liverpool Biennial ha ospitato, nella giornata dell’11 ottobre, un meeting breve – ma dalla portata intercontinentale – delle ‘nazioni unite’ di biennali internazionali. Adottato da numerosi Paesi su base locale, articolato in sedi diametralmente opposte, o bipartito in due diversi stati, il format è un modello di mostra e sviluppo in continua messa in discussione, indagato inoltre dai suoi stessi operatori. Abbiamo assistito al meeting, registrando gli interventi più emblematici.
In collaborazione con International Biennial Association, piattaforma sovranazionale delle biennali, e Biennial Foundation, gruppo di ricerca che studia il fenomeno ad ampio raggio, la città a metà tra il fiume Mersey e l’Oceano Atlantico ha ospitato la conferenza presso Bluecoat, il palazzo più antico del centro urbano, sede di una delle cinque mostre della rassegna d’arte in corso a Liverpool.
Nove direttori e rappresentanti di istituzioni internazionali sono intervenuti in tre panel, rispondendo a macro-argomenti attorno alla biennale come pratica culturale e politica. La discussione si è concentrata su possibili modelli pedagogici, sostenibilità tra ecosistemi locali e globalizzazione, e necessità di strategie future, per un’effettiva futuribilità delle biennali come format equi, continuativi e generatori di conoscenze e competenze.
A inaugurare il meeting Sally Tallant, direttore di Liverpool Biennial, accogliendo i cinquantacinque delegati, operatori culturali della città inglese e da tutto il mondo, salutando l’opportunità di “comunicare per lavorare insieme”. Tale network ha infatti vita giovane: l’International Biennial Association è stata fondata due anni fa, la Biennial Foundation nel 2009, rappresentata all’incontro dal direttore Marieke van Hal, co-autrice di The Biennial Reader, la prima antologia teorica dedicata a tale progetti espositivi e culturali.
Durante l’incontro si è evidenziato come l’applicazione di un format “paracadute” su base locale sia complicata da specificità storiche, politiche e sociali; una criticità simultanea alla vitalità di fermenti legati a democrazia e postcolonialismo, segnata da progetti per un’inclusività sociale ad ampio raggio, su segnalazione di MônicaHoff, Toma Luntumbue e Alya Sebti, curatrice e direttori delle biennali di Mercosul, Marrakech e Lubumbashi (Brasile, Marocco, Congo).
Altri punti discussi, la plurilocalizzazione, strategia fatta propria da alcuni istituzioni come Documenta (2002 e 2012). Lo scambio bilaterale, approccio di Documenta 2017, tra Kassel e Atene, è prassi anche per l’indonesiana Biennale Jogja, co-organizzata con l’India nel 2011 e, nel 2013, con tre Paesi arabi. Durante il summit, la direttrice, Alia Swastika, ha tracciato i contorni dell’attuale partnership con la Nigeria, tandem che inaugurerà la Biennale Equator l’anno prossimo. Una trasversalità geopolitica altra rispetto a binarismi nord-sud, est-ovest, arte contemporanea e arte vernacolare.
Centrale, inoltre, la relazione col passato. Nevenka Šivavec, direttrice di Ljubljana Biennial, ricordando l’edizione slovena del 2009 come rottura con la tradizione, ha riconosciuto l’inevitabile importanza della preservazione della storia come strategia per un effettivo successo, nonché per un trasversale coinvolgimento di pubblico. Il medium della stampa d’arte, focus primario della rassegna di Ljubljana dagli anni di Tito, è stato abbandonato in tempi più recenti per dare spazio a nuovi media, ma potrebbe essere reintegrato come tratto distintivo stesso del programma sloveno.
Altri punti nevralgici, la criticità dell’approccio site specific: fondamentale in progetti come la Ural Industrial Biennial, guidata da Alisa Prudnikova, o declinato rispondendo a un’ubiqua versatilità dell’arte, e una maggiore libertà data agli artisti, secondo Sarah McCrory (Glasgow international). Il legame luogo-opera è stato inoltre messo in discussione da RoseLee Goldberg (Performa, New York). Pioniera degli studi storico-artistici sulla performance, fondatrice della prima rassegna interamente dedicata a tale medium, nel 2004, Goldberg si relaziona infatti rispetto a un ‘padiglione senza pareti’, flessibile rispetto a una forma artistica fluida, a suo parere contingente, quanto trascurata, rispetto a media più storicizzati.
Per concludere con Marieke Van Hal, è emerso come la strategia site specific sia intimamente connessa con lo status quo del fenomeno biennale stesso, capace di generare ‘un modello radicale e su misura rispetto al luogo in cui un nuovo festival prende vita’. Van Hal ha inoltre citato la teorica Geeta Kapur, ospite lo scorso luglio all’ultima assemblea generale dell’International Biennial Foundation, a Berlino: “Piuttosto che osservare se una biennale abbia globalizzato – con effettivo successo, o forzosità – un luogo, una città, una nazione, una regione, sarebbe meglio verificare e dispiegare un campo di contraddizioni, testando la capacità d’azione offerta dall’arte stessa”.
Un’altra definizione di biennale potrebbe dunque essere quella di sfida, una scintilla per un processo di autoformazione attraverso l’attenzione, più ampia possibile, verso lo scenario sovranazionale. In tale processo, il meeting di Liverpool è un esempio di un modello virtuoso di imprenditorialità culturale. In piccola grande scala e, ancora, in divenire.
Elio Ticca
www.biennialassociation.org
www.biennialfoundation.org
www.biennial.
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