Non si è mai troppo giovani per ricordare. Grear Patterson all’American Academy in Rome
American Academy, Roma – fino al 30 novembre 2014. In “Forest Theater”, un giovanissimo Grear Patterson tira fuori dallo zaino e dalla macchina fotografica angoli di adolescenza rubati tra le siepi di casa. In mostra va il mondo delle cose ordinarie e irripetibili che gli occhi di un ragazzo possono godere.
Ci hanno insegnato che c’è un tempo per tutto. Hanno detto che ce n’è uno per giocare, uno per osare, c’è quello per pentirsi d’aver azzardato e quello per rimpiangere d’essersi pentiti. La storia dei ritmi vitali, per alcuni rassicurante, è disperatamente reale. Ciò è vero nella vita, e nell’arte? È avventato confrontare il tempo in natura con il tempo dell’arte? Non lo è se è vero, come è vero, che la disputa è sempre aperta tra chi asserisce che l’arte si plasma sul modello della vita e chi è invece pronto a fondere al rogo come garanzia che è la vita a imitare l’arte (Woody Allen ne trasse una bella battuta).
Grear Patterson (Redding, Connecticut, 1988; vive a New York), ventisei anni sulla carta e sul viso anche meno, se non il dubbio, con il suo lavoro scioglie almeno le riserve sul diritto di porsi il quesito, tutt’altro che risolto. La giovinezza e la nostalgia sono il doppio binario su cui corre la sua opera. Se la vita suggerisce di chiederci cosa ha da essere nostalgico nei confronti dell’età dell’innocenza uno che è stato adolescente fino all’altro ieri, l’arte risponde con un vento di reinvenzione che spazza via le congetture preconfezionate da life coaching. La nostalgia di Patterson è vera, ed è una saudade che non ristagna nel sentimento facile a diventare sentimentalismo. Una nostalgia che non è il rimpianto figlio di una memoria antica che spesso muta la realtà del vissuto, è di più un’occhiata furtiva, fresca, quasi pudica, dietro di sé, a sbirciare qualcosa che è lì, due passi indietro, eppure nell’ombra; inizia pianissimamente a sgranarsi, come i pixel della casa sull’albero fotografata mentre perde la sostanza delle assi di legno per diventare un tutto con la natura umida (Treehouse, 2007).
Il contesto di riferimento: il North Carolina della ruralità massiccia e milioni di declinazioni di verdi e arancio. It’s gonna be alright, in fondo ci viene detto, ma con una malinconia prematura quanto spontanea. Le modalità creatrici in cui Patterson si cimenta sono le più disparate, dal fotorealismo statico, quasi figlio di Gregory Crewdson, sicuramente ricco di immaginario cinematografico, ai fuochi d’artificio esplosi e inespolosi su tela bianca (Misty, Anni, Merwdith, tutte del2014), potenziali citazioni – grazie al cielo mancate – di situazioni che ricordano altri anni. La purezza delle trovate artistiche sembra a volte anche avventata, tradisce gambe traballanti sui primi passi che sembrano non conoscere (o riconoscere?) riferimenti, ma la sfrontatezza è il plus che fa di lavori incoraggianti, ma acerbi, potenziali frutti futuri.
Ofelia Sisca
Roma // fino al 30 novembre 2014
Grear Patterson – Forest Theather
a cura di Peter Benson Miller
organizzata in collaborazione con la Depart Foundation
AMERICAN ACADEMY
Via Masina 5
06 58461
[email protected]
www.aarome.org
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/38135/grear-patterson-forest-theater/
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