Los Angeles a trent’anni. Intervista con Andrew Berardini
Classe 1982, da tempo Andrew Berardini lavora al centro della scena artistica losangelena, nel ruolo di critico, curatore e docente. Lo abbiamo intervistato nel quadro del grande reportage da L.A. realizzato da Emanuela Termine e pubblicato su Artribune Magazine numero 21.
Cosa pensi del nuovo ruolo di Los Angeles nel panorama internazionale?
Il nuovo ruolo è il vecchio ruolo. Los Angeles. California. è una piccola preghiera, un poema, un salmo, l’oro al termine dell’arcobaleno del Manifest Destiny, il verso finale di una ballata country, la meta di tutte le canzoni di prigione. è una specie di un sogno. è la fine della civiltà occidentale e la città del XX secolo, caratterizzata da automobili e film, industria aerospaziale e computer (Internet è andato online per la prima volta alla UCLA, anche se poi è stato perfezionato nella Silicon Valley). Non siamo ancora entrati nell’epoca della decadenza ma quel momento non è lontano. Abbiamo avuto spazio, abbiamo avuto abbastanza attenzione per sentirci connessi e abbastanza serena negligenza da non preoccuparci dei sistemi di classe, delle gerarchie e del consumo che caratterizzano posti come New York. Con un tale giro di soldi (ho letto di recente che i collezionisti statunitensi realizzano più della metà di tutti gli acquisti di arte contemporanea), ovviamente gli Stati Uniti hanno bisogno di una Firenze che permetta ai baroni corrotti di ripulire i propri profitti con la cultura. New York è stata prosciugata dai vampiri degli abissi della finanza internazionale, ogni sua area vivibile è stata sottratta agli artisti, che quindi hanno dovuto spostarsi altrove e Los Angeles è stata una buona alternativa. Anche da San Francisco ci si sposta verso Los Angeles, per ragioni simili. Recentemente l’attenzione su Los Angeles è stata discretamente alta, ma ciò non mi preoccupa molto.
Quali sono i punti di forza del sistema artistico losangeleno che hanno permesso questa ascesa?
Un buon numero di istituzioni presenti qui hanno contribuito a questa fioritura, ma è stato soprattutto il supporto dell’Europa a far sì che fosse possibile essere artisti a Los Angeles. Ho scritto per quotidiani locali e riviste di New York, ma il supporto maggiore mi è sempre arrivato dall’Europa. Artisti dal linguaggio molto sperimentale, dalla fine degli Anni Sessanta in poi, sono molto riconoscenti per questo sostegno. Ho sentito Paul McCarthy e Allen Ruppersberg in persona definirlo come un supporto critico. Negli ultimi anni abbiamo messo su un’industria del fare arte: con le scuole d’arte a nutrire le gallerie e poi i musei, rappresentati al meglio dall’unica biennale locale, Made in L.A. all’Hammer Museum, dove la maggior parte dei selezionati si è diplomata in una di tre o quattro scuole di arte. E questo sistema funziona così bene da produrre lavori già pronti per il mercato (permettendo fortunatamente a qualche vero talento di passare senza intoppi). Gli affitti stanno salendo, gallerie e artisti si trasferiscono qui a frotte, il “territorio degli stravaganti” sembra ridursi un po’, ma a Los Angeles resta abbastanza spazio da mantenerne il lato eccentrico per almeno altri dieci o vent’anni. Mi sento molto fortunato a poter assistere a questo importante cambio di marcia, anche se non posso prevedere dove porterà.
In un tuo articolo hai sottolineato come nei decenni precedenti il concettualismo sia stata una tendenza dominante a Los Angeles, mentre di recente molti artisti hanno tentato di resuscitare la pittura, con buoni risultati. Quali sono a tuo parere le tendenze prevalenti oggi?
Ci sono talmente tante sacche e micro-comunità, gruppi di artisti che non vanno d’accordo: è difficile distinguere una cosa dall’altra. Concettualismo e scultura clusterfuck hanno dominato la scena dagli Anni Sessanta fino a poco tempo fa, anche se in una versione locale dei trend internazionali. Attualmente, secondo me, il fenomeno più interessante di riscoperta locale vede protagoniste donne pittrici. Per anni la pittura a Los Angeles è stata considerata spazzatura, ma in qualche modo tutte queste donne che lavoravano da sole, sostenendosi silenziosamente a vicenda, sono emerse (o ri-emerse) contemporaneamente e stanno ottenendo serio riconoscimento. Laura Owen è la più famosa, ma ci sono anche Mary Weatherford, Rebecca Morris, Sarah Cain, Alex Olsen, Lisa Williamson, Dianna Molzan, Liat Yossifor, Frances Stark (se vogliamo definirla pittrice) e altre. Ultimamente parecchi artisti uomini sono usciti fuori come favoriti del mercato, ma io mantengo una garbata distanza. Ce ne saranno sempre. E molti dei migliori artisti sono del tutto fuori dai trend, rimanendo ognuno nel proprio strambo pianeta extrasolare. Anche se molto connessa alla comunità, Samara Golden porta avanti un lavoro unico, come nessun altro che conosco fa. e per molte ragioni credo sia emersa come una delle figure più importanti degli ultimi anni a Los Angeles.
Nel 2012 hai fondato il progetto The Art Book Review. Di cosa si tratta e come si colloca nel contesto delle iniziative autonome ed emergenti?
Molto semplicemente, recensiamo libri d’arte. Ho pensato che il sistema di distribuzione del libro d’arte produce begli esemplari, che però poi non sono abbordabili per i giovani artisti appena diplomati. Attraverso il sistema delle copie offerte dagli editori per le recensioni, Art Book Review è in grado di collezionare cataloghi, saggi, libri d’artista ecc. e di metterli a disposizione di coloro che li apprezzano di più ma che spesso hanno le maggiori difficoltà a procurarseli. Così facendo promuoviamo (io, la co-fondatrice Sarah Williams e la nostra nuova collaboratrice Jaye Fishel) un discorso sulle pubblicazioni d’arte. Diamo concreta attenzione a libri solitamente relegati all’angolo delle occasioni natalizie. Essendo un poco eccentrico, però, preferisco la scrittura sperimentale, o meglio non costretta dalle convenzioni. Incoraggio le persone a fare come vogliono, a scrivere liberamente e i risultati non di rado sono stati fantastici. Di recente ho visto una poesia che avevo scritto per recensire un catalogo usata come fascetta editoriale. Ne sono stato molto felice. Los Angeles non è una città di grandi lettori e scrittori, ma le nostre conversazioni più sofisticate sono prima di tutto visive. Art Book Review si colloca in una costellazione di iniziative collettive emergenti, per dare spazio a libri, lettura, scrittura e libera distribuzione del sapere, tutte cose fondamentali secondo me. Chiunque mi stia leggendo ora è libero di scrivere per ABR: siamo una comunità che si auto-elegge, molto accogliente.
Emanuela Termine
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #21
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati