Codice Italia di Vincenzo Trione (1). Ecco perché il padiglione ci piacerà
Il particolarismo non deve diventare ripiego e va sicuramente superato, ma non nella direzione di un indistinto globalismo. Per questo le premesse del futuro Padiglione possono invertire una marcia che ha portato l’Italia a sparire dalla scena globale. Ne parliamo nel primo di una serie di (almeno) tre saggi.
Non staremo certo a dilungarci su considerazioni ovvie, come il fatto che è assolutamente prematuro parlare di un progetto come quello approntato da Vincenzo Trione per il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2015, che non è stato ancora presentato ed è quindi ignoto nei dettagli e anche nelle linee generali. Ma ci sono riflessioni possibili anche solo sulle poche parole che il curatore gli ha voluto dedicare, parlando fugacemente con noi di Artribune e poi con qualche agenzia di stampa. Del resto, al contesto generale di ritardi e di precarietà che ha partorito la nomina, e alle condizioni di lavoro ingiustificabilmente problematiche alle quali verrà chiamato il prescelto abbiamo già dedicato un’esauriente analisi uscita ieri. E, cogliamo l’occasione per rammentarlo, la gestione della partita “Padiglione Italia” costituisce forse il primo rilievo che ci tocca muovere ad un ministro Franceschini che finora ci ha sorpresi per efficacia, determinazione e chiarezza di intenti e modalità per centrarli.
SI CHIAMA “PADIGLIONE ITALIA”. ITALIA!
Ma veniamo all’oggetto. Cosa c’è da aspettarsi di vedere a maggio prossimo in quell’estrema propaggine dell’Arsenale che da qualche anno accoglie il Padiglione Italia? Dalle prime, sintetiche anticipazioni, un approccio pare farsi strada con buona chiarezza: “un tentativo di ragionare sull’identità italiana, di riscoprire quello che definirei il Codice Italia”, ci ha rivelato Trione (in seguito si è chiarito – speriamo erroneamente – che proprio “Codice Italia” sarebbe il titolo della mostra, non propriamente felice in effetti). “Individuare un punto di vista puntuale ed identitario, uno stile dell’arte italiana, senza cedere a descrizioni fenomenologiche, come è accaduto in altre edizioni della Biennale”, ha puntualizzato il curatore.
Ragionare sull’identità italiana. Basta già questo per imbastire un’ampia riflessione, lasciando a future analisi il “come” verrà fatto da Trione. È questo oggi il limite, o uno dei limiti, dell’attuale panorama del contemporaneo nostrano? Partiamo con i diretti predecessori del critico milanese, i cui progetti veneziani saranno inevitabilmente i primi con i quali dovrà confrontarsi e – auspichiamo – cercare di diversificarsi: una lunga serie di partecipazioni italiane deboli quando non impresentabili, come scrivevamo già ieri. Per ragioni diverse: dal padiglione “established” di Ida Gianelli nel 2007, con un’accoppiata galattica Penone-Vezzoli le cui ragioni critiche – anche in chiave rappresentativa: altrimenti perché proporla in una sede che si chiama, piaccia o meno, “Padiglione Italia”? – sono sempre rimaste appunto nella stratosfera, alla passerella luccicante ed effimera della coppia (Luca)Beatrice&Beatrice(Buscaroli) nel 2009. Poi c’è stata l’inclassificabile parentesi sgarbiana: un’idea potenzialmente, molto potenzialmente salutare, che pretendeva di scardinare logiche asfittiche e castranti, ma che si è presto trasformata nella tragicomica scimmiottatura di una megainstallazione dell’artista-Sgarbi, una malriuscita catalogazione che ha fagocitato quel poco di buono che esibiva nel marasma incontrollato malamente ammassato all’Arsenale.
Ma la sublimazione del paradosso di un luogo – ci ripetiamo – che si chiama “Padiglione Italia” ma che con insuperato provincialismo cerca ogni via praticabile per annientare l’”italianità” di quanto propone si è avuta nell’ultima Biennale, con il progetto di Bartolomeo Pietromarchi. Un fragilissimo per non dire inesistente concept basato su accoppiate ordinate tematicamente, che si è trasformato in una chiamata per 14 artisti capaci di garantire il troppo cauto curatore da accuse di parzialità, termine che andrebbe sostituito con quello di coraggio. Quattordici artisti di cui non discutemmo né discutiamo talenti né forza, ma di cui ancora sfugge la coerenza nel metterli assieme per una proposta che abbia un senso come rappresentanza NAZIONALE. O forse la coerenza sta proprio in questo: nel farsi rappresentativi di un sistema italiano del contemporaneo che assiste alla diffusa adesione, fra i giovani artisti maggiormente seguiti, anche a livello istituzionale, ad un minimal concettualismo di stampo anglosassone, che nulla ha a che vedere con l’identità mediterranea, e quindi italiana. E alla crescente voga dell’arte relazionale, anche questa avulsa dal dna italiano: l’arte italiana emerge e primeggia non nella comunicazione, ma nell’evocazione, nel confronto con l’assoluto.
PIGRI, PROVINCIALI, PAUROSI…
Una scena depressa, figlia principalmente della pigrizia e della mancanza di coraggio dei critici che animano quello che viene riconosciuto come “sistema” dell’arte italiana. E figlia anche di una malintesa tensione verso istanze globalizzate, che rischia appunto di tradursi in provincialismo di ritorno. Il particolarismo non deve certo diventare ripiego e va sicuramente superato, ma non nella direzione di un indistinto globalismo: va semmai superato nell’apertura a nuovi stimoli, nella scoperta di artisti portatori di energie primigenie, nell’”investimento” su nomi inediti.
Perché dunque si può guardare al lavoro di Vincenzo Trione con moderato ottimismo? Intanto perché la sua storia è avulsa dalle liturgie che in tanti anni hanno affermato un sistema chiuso e autoreferenziale, sovrinteso da attori intenti più a occupare i pochi spazi – ideali e operativi, oltre che fisici – esistenti che a curarsi di crearne nuovi e più ampi. Ma soprattutto perché le sue prime dichiarazioni rimettono al centro l’identità italiana, la cui riscoperta – ormai si potrebbe anzi parlare di “scoperta”, tanto è stata aprioristicamente eclissata – può solo giovare innanzitutto agli artisti italiani, consentendo loro di contribuire a una circolazione di idee – che per definizione (Voltaire insegna) non conosce confini nazionali – apportando contributi originali e unici, non rimasticature aproteiche e indigeribili. Quali sono le carte da calare in questa ottica sul tavolo globale? Qui si aprirebbe una riflessione quasi infinita, che porterebbe ognuno ad avere risposte probabilmente distanti. Si tratterà di vedere se la sintesi che proporrà Trione riuscirà a soddisfare le sue stesse premesse, sapendo che si tratta solo del primo tratto, ma di un percorso che finalmente ha invertito marcia…
Massimo Mattioli
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