Dialoghi di Estetica. Parola a Roberto Masiero
Roberto Masiero è professore ordinario di Storia dell’Architettura, studioso delle arti e delle scienze nel quadro di una generale storia delle idee e architetto. Ha insegnato stabilmente nelle Università di Trieste e di Genova Storia dell’architettura contemporanea e Storia delle tecniche costruttive. Promotore e responsabile della creazione di una Facoltà di Architettura nell’ateneo di Trieste, ha contribuito istituzionalmente e culturalmente alla nascita della Facoltà Design e Arti all’interno dello IUAV di Venezia, assumendo il ruolo di vicedirettore. Ha pubblicato numerosi testi ed è stato curatore di significative mostre d’arte. L’estetica in rapporto alle trasformazioni dell’arte e agli sviluppi dell’architettura, il dibattito su quest’ultima alla luce della riflessione filosofica e del nesso teoria e prassi sono i temi affrontati in questo dialogo.
Nel 1979 nella tua nota in chiusura all’edizione italiana della Parva Aesthetica di Adorno, riferendoti ai suoi frammenti critici e radicali, rintracciavi il nesso tra teoria e prassi, tra biografia ed estetica. Incidentalmente, scrivevi anche che la morte dell’arte è la realizzazione “totale della totalità” dell’estetica, la sua incarnazione nel mondo. Iniziamo da qui: oggi, conservi ancora la stessa concezione dell’estetica?
Si! Il mio ultimo lavoro, non ancora pubblicato, sul kitsch (meglio, sull’età kitsch: la nostra) conferma questa affermazione. Potrei sintetizzare così la questione: l’estetica nasce nella metà del Settecento perché non si riesce a risolvere il conflitto tra aisthesis e nous, che stava alla base del pensiero greco classico, cioè il conflitto tra oggettività e soggettività, tra teoria e prassi, e quindi si accetta l’esistenza di due metafisiche rivali, scienza e arte, come se potessero esistere verità diverse.
Ovviamente è forse possibile l’esistenza di più verità, ma nella nostra cultura, se non in pochi casi, questo è semplicemente oggetto di rimozione. Da allora l’estetica è il sostituto di qualcosa che manca, cioè una anestetica, e l’arte è un “gioco” a imbrogliare le carte o a mettere in discussione continua e in modo sempre irrisolto e irrisolvibile questa contraddizione, sino al punto di coincidere oggi con la stessa filosofia dispersa tra pensiero debole e pensiero forte, tra ermeneutica e nuovo realismo.
Questa riflessione sul nesso teoria-prassi si adatta bene alle trasformazioni avvenute in arte dagli Anni Sessanta: penso alla perdita dei suoi confini, alla sua riconduzione all’ordinario… In quel momento ti chiedevi se la dialettica potesse entrare in metastasi: e se fosse l’arte a essere entrata in questo stato?
A me sembra chiaro che il grande sogno della dialettica di risolversi in qualche Aufhebung si è dimostrato per quello che è: un sogno. In particolare a me sembra uno straordinario tentativo, da parte di Hegel e poi di Marx, di riunificare le due metafisiche che emergono dalle posizioni kantiane, nel primo attraverso la corrispondenza tra ontologia e storia e nel secondo tra epistemologia e storia. La contemporaneità, cioè il nostro tempo, ci invita molto più banalmente, ma anche problematicamente, per ora a imparare a fare surf. Fino a quando, direbbe Heidegger, un dio non ci degnerà di parlarci. È che Heidegger è demoniaco.
La riflessione sul nesso tra teoria e prassi ricorre anche nella tua accurata ricognizione sulle estetiche dell’architettura. Nel tuo libro del 1999 scrivi che con l’affermazione della modernità, al pronunciarsi dell’epistemologia e delle riflessioni teoretiche sulla prassi, anche l’arte diventa autonoma anticipando i temi delle teorie. Ti chiederei una nota di approfondimento su questa tua riflessione.
Anche qui, difficile sintetizzare. Ci provo: nel mondo preclassico, persino prima degli stessi presocratici, in età omerica, nel nostro Occidente, come penso abbia ben dimostrato Onians, non esisteva la separazione teoria e prassi. In termini banali, c’era circolarità tra pensiero e azione, anche se ovviamente non erano e non sono la stessa cosa. Lo schema è il seguente: una azione che pensa e un pensiero che agisce (forse alla luce di questa affermazione dovremmo rileggere Gentile).
Il mondo greco si è invece alimentato della separazione, o meglio del fatto che il pensiero doveva dominare l’azione, e ci siamo ritrovati a dover accettare l’esistenza di due diverse metafisiche, appunto quelle della scienza e quelle dell’arte, quelle della teoria e quelle della prassi. Forse dovremmo pensare l’ontologia al di là della stessa verità, e questa sì che mi sembra una grande sfida: di certo non possiamo continuare a fingere che non ci siano problemi nel vivere tra metafisiche che confliggono, senza poter capire perché. Questa finzione diviene qualunquismo estetico o si risolve nell’idolatria dell’arte. Vive della propria irresponsabilità. L’etica diventa perciò quella del turista.
Le estetiche dell’architettura non possono fare a meno di elaborare una riflessione che abbia implicitamente a che fare anche con l’antropologia e la psicologia. Qual è il tuo pensiero in proposito?
L’architettura non è questione estetica e nemmeno etica, ma politica, per una ragione molto semplice: il mondo è totalmente artificiale, quindi è costruito, quindi è progettato, architettato. L’antropizzazione si è compiuta.
Nel Medioevo, anche gli architetti erano chiamati a partecipare alle dispute scolastiche. Durante il Novecento si sono stretti nuovamente e in modi diversi i rapporti con la riflessione filosofica: credi che sia possibile pensare a una nuova era di dispute teoretiche incentrate sulla produzione architettonica?
Nel Medioevo avevano o un Dio che indicava il come e il perché, o l’idea di una natura retta da regole che andavano rispettate per fare le cose buone e belle. Io credo che in questo tempo oramai secolarizzato non siano più necessarie le dispute “scolastiche”, ma processi che agiscono sulla creatività e intelligenza collettiva, quella dell’“essere smart”. Su questo ho lavorato nel mio ultimo libro.
Come si caratterizza la nuova riflessione estetica in materia di architettura?
Dovrebbe essere, prima che estetica, politica.
Davide Dal Sasso
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