La lunga notte degli Invernomuto
Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi da anni sono conosciuti come il duo artistico Invernomuto. Artisti visivi tra i più affascinanti della loro generazioni, creatori di blog e progetti editoriali, musicisti sperimentali, attenti osservatori della cultura visiva e molto altro ancora. Lo scorso sabato il book corner di Artissima era gremito per la presentazione del loro ultimo catalogo/artbook “Negus” edito da Humboldt Books e questa notte gli spazi milanesi della Marsèlleria saranno il teatro di una lunga e intensa notte-evento tra musica e performance. Gli abbiamo fatto qualche domanda per farci accompagnare nel loro denso immaginario, tra rastafarianesimo, produzioni filmiche e meditazione.
Parliamo della vostra ultima mostra, in corso alla Marsèlleria di Milano. Una sorta di piccola retrospettiva ma focalizzata su alcuni lavori tra di loro in relazione. Questa volta non avete pensato a un titolo complessivo per la mostra: perché?
Ci abbiamo pensato a lungo, le nostre mostre personali hanno infatti sempre avuto un titolo (Simone, B.O.B., Dungeons and Dregs…). In questo caso un titolo onnicomprensivo manca, ma ne abbiamo individuato uno per ciascun piano degli spazi di Marsèlleria: Wondo Genet, Ruatoria e Black Ark. Alla mostra si accede dal locale caldaie e quindi direttamente nel basement, permettendo al pubblico di percorrere la mostra dal basso verso l’alto. I tre titoli corrispondono a tre luoghi realmente esistenti, il primo in Etiopia, il secondo in Nuova Zelanda e il terzo in Giamaica. È una traiettoria su scala globale attraverso alcuni luoghi fondanti del progetto Negus. Abbiamo ragionato molto sulla luce e sul suono, quasi in maniera teatrale, per questo consideriamo i tre piani come ambienti distinti, certamente con opere indipendenti, ma accorpate, in dialogo tra loro.
Approfondiamo un poco il progetto Negus: qual è stato lo spunto che vi ha fatto sentire come un’urgenza lavorare con l’immaginario rasta? Ancora una volta parte tutto dal suono, dalla musica?
Sì, il suono è, come in molti altri nostri progetti, il movente. Il rastafarianesimo è un culto, inizialmente staccato da un discorso subculturale di matrice musicale, ma che nel tempo si è amalgamato al suono. La musica giamaicana – in tutte le sue sfumature, dal reggae al dub – diventa quasi un elemento sacro all’interno dei rituali rasta; la cura per le basse frequenze, accompagnate dal consumo di ganja, contribuiscono a raggiungere uno stato di “I-Ration“, ovvero di meditazione ed estasi, durante la preghiera. Tutti questi elementi sono centrali per la nostra ricerca in Negus, li abbiamo scomposti e ricombinati, in particolar modo nell’installazione Wondo Genet, nel basement di Marsèlleria.
Il rastafarianesimo ci ha sempre incuriosito per la modalità di utilizzo dei simboli e la loro riappropriazione, come del resto avviene in molte forme di culto minori. Ad esempio l’agricoltore rasta alla comunità di Shashamane che ci racconta del “furto” di Mercedes Benz della stella a tre punte, un tempo simbolo dell’incoronazione dell’ultimo imperatore d’Etiopia, ci è servita come elemento per costruire una parte di narrazione del film e una scultura (I-Ration, 2014), facendo a nostra volta bricolage con quel simbolo.
Gli studi post-coloniali e il relativo immaginario sembrano sempre più centrali nei vostri recenti lavori, a partire da Negus ovviamente. Anche se con segni e traiettorie autonome, non siete gli unici artisti italiani della vostra generazione a scavare in quella direzione. Qual è a vostro avviso la natura di questo interesse? Un’urgenza artistica o il voler aderire a un dibattito intellettuale?
Nel nostro caso è un interesse coltivato da tempo anche in progetti extra-Invernomuto (un esempio è il progetto Palm Wine di Simone Bertuzzi, che sonda traiettorie musicali su scala globale, proprio a partire dal dibattito post-coloniale). In Negus è una conseguenza dello sconfinamento in ambito musicale, da un lato, e dall’altro un’urgenza, senza dubbio: abbiamo sentito il dovere di raccontare la nostra storia coloniale a partire da un fatto accaduto nel nostro paese d’origine e, successivamente, di renderla post-coloniale. Questo passaggio è molto presente in tutto il progetto e nelle opere che ha generato; probabilmente il nodo in cui si manifesta di più è nel coinvolgimento di una figura come quella di Lee “Scratch” Perry e nella sua identità diasporizzata, aliena e terrigna allo stesso tempo.
Sul piano della visual culture invece, siete coinvolti come autori su più fronti e con varie identità a riflettere su diversi fenomeni visivi che spaziano dal mondo delle immagini di fiction a quelle documentarie. Qual è stato l’evento “visivo” che vi ha condizionato di più negli ultimi dieci anni?
Crediamo che negli ultimi dieci anni l’evento “visivo” normalmente inteso si sia frammentato in mille pezzetti. Per intenderci: ci sembra che non siano più accadute morti di Lady D o 9/11; in termini di evento mediatico assistiamo a brevi frammenti di iper-realtà mediata ed esplosa, con un ovvio ritorno, decisamente invasivo e alla portata di tutti, del real time. L’evento si scarica di tensione narrativa e drammatica: così, in termini di tempo e supporto di fruizione, l’ice bucket occupa lo stesso spazio della decapitazione dell’ISIS e gli immaginari si perdono nello streaming. Il contraltare di queste clip, di questi trailer della realtà (piattaforme come Vine ne sono la santificazione) è l’eterno “log in” – o il “never log-out” – che si concretizza nelle durate estreme, nelle web-cam sempre accese, in video della durata di 24h su YouTube.
Da un lato i vari allestimenti che compongono le vostre mostre ricordano dispositivi artistici che hanno radici nel post concettuale internazionale, non so, da Heim Steinbeck a Mike Kelley. Ready made, assemblaggi e multimedia. Non è raro però vedere anche disegni ed elementi scultorei che attengono a esperienze più manuali. Che tipo di valore attribuite a tali pratiche?
Difficile attribuire un “valore”: è tutto parte di un unico sistema. Se pensiamo a Negus, ad esempio, tendiamo a considerarne la parte filmica il corpo centrale, e a collocare gli altri media nelle periferie. Però quando ci siamo trovati a progettare la mostra a Marsèlleria abbiamo sentito l’esigenza di ridurre all’osso le immagini in movimento o di usarle per disegnare gli ambienti, spingendo su opere di altro tipo. Il loro valore è, dunque, altissimo.
C’è inoltre una componente legata al lavoro in studio: da circa un anno siamo in uno spazio più grande ed è naturale espandere il materiale in direzioni manuali, pur sempre considerando l’appoggio di artigiani e collaboratori, che nel nostro caso diventano estremamente importanti.
So che il cinema, e intendo non solo quello sperimentale, vi è sempre interessato tantissimo. Siete anche stati nella collettiva Glitch al PAC di Milano. Pensando al modello cinematografico come narrazione, linguaggio e produzione, vi siete mai immaginati di confrontarvi realmente con quella forma espressiva?
Curioso. Mentre rispondiamo a queste domande siamo in treno di ritorno da Roma dove abbiamo avuto l’audizione del Mibact per la richiesta di finanziamento ministeriale sulla continuazione cinematografica di Negus. In questo momento confrontarsi direttamente con la macchina-cinema per noi significa tentare di capirne i meccanismi produttivi, stilistici e distributivi; ed è una fase in progress. Però uno dei commissari è intervenuto dicendo: “Per cortesia, cercate di venirci incontro, noi parliamo solo la lingua del cinema, cosa intendete con la definizione di ‘documentario ibrido’?”. E quindi ti accorgi che ci sono ancora molti parametri e zone liminali da definire.
Detto ciò, siamo continuamente ossessionati dalla scrittura di un film di fiction vero e proprio. Questione differente e che, forse, risponde meglio alla tua domanda.
Questa sera la vostra mostra alla Marsèlleria sarà lo sfondo di una notte intera di performance. Oltre a darci qualche dettaglio sul programma, m’interessa capirne il significato performativo, rituale, temporale…
L’apertura notturna permette di visitare la mostra con un grado di percezione differente. In mostra ci sono molte variazioni luminose e sonore, questa sera le amplieremo ancor di più, lavorando sul tempo, e non solo sullo spazio. In generale si tratta di una vera e propria attivazione della mostra.
Al piano terra si esibirà il musicista etiope Endriss Hassen, suonatore di masinqo, uno strumento tradizionale monocorda, e si susseguiranno una serie di azioni della performer di origine eritrea Muna Mussie; nel basement ci innesteremo gradualmente nell’installazione Wondo Genet attraverso una selezione musicale estesa, progettata per accomodare il sonno. La lunga durata porta introspezione; ci teniamo a mantenere un grado d’immersione greve e riflessivo. Una forma di meditazione.
Riccardo Conti
Milano // fino al 29 novembre 2014
13-14 novembre 2014 da mezzanotte alle 7
Invernomuto
Catalogo Humboldt Books
MARSELLERIA
Via Paullo 12a
02 76394920
[email protected]
www.marselleria.com
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/39052/invernomuto/
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