Biennale di Venezia: e se non servisse a niente?

Per come è strutturata oggi la Biennale di Venezia non offre nulla in più rispetto a quelle di Istanbul o Berlino, Dubai o Gwangju. Parola di Stefano Monti, che propone la sua ricetta per restituire ad un appuntamento all’apparenza sempre più raffazzonato la dignità di un tempo...

Perché la Biennale di Venezia è così importante? Malgrado possa apparire una provocazione, questa domanda è certamente più utile (e meno irriverente) dell’atteggiamento che il mondo politico conserva nei confronti dell’arte contemporanea nel nostro paese.
Chiedersi quali siano i motivi per cui un evento di questo calibro si inserisca all’interno degli appuntamenti più importanti del mondo artistico contemporaneo, è tutt’altro che una provocazione. È semplicemente un’analisi, necessaria, per valutare quali siano gli aspetti che più di altri premiano questo incontro internazionale, ed evitare, se mai è possibile in uno scenario come quello italiano, che questi plus, questi fattori critici di successo, vadano sprecati, annichiliti.
La Biennale di Venezia è importante perché è un incontro storico. Punto. Tutte le considerazioni che si possono fare a tal riguardo partono da qui. E’ una manifestazione che negli anni (non i nostri, quelli del secolo scorso) ha saputo conquistarsi il rispetto e l’attenzione internazionale, ospitando sempre più nazioni, artisti sempre più importanti, adottando curatori di fama e di genio, e mostrando gli aspetti più vitali dell’arte nostrana.
È per questo motivo che ancora oggi le nazioni di tutto il mondo aderiscono a questa manifestazione, che rappresenta ormai una delle pochissime ragioni per cui il nostro Paese rientra nell’interesse del sistema dell’Arte internazionale.
Ma, fatti salvi gli aspetti storici, e le presenze internazionali, le ragioni di questo successo sono davvero poche. Non è disfattismo, ripeto, è un’analisi che quanto più è dolorosa tanto più è utile, perché la Biennale di Venezia è un’istituzione, ma non è detto che godrà necessariamente di questo status per sempre, e se continuiamo ad agire come se questa non fosse la più naturale delle osservazioni, se non si cambierà l’atteggiamento di disinteresse tronfio, che nasce da un’arroganza immeritata per quanto è stato fatto nel nostro passato, sicuramente l’interesse internazionale si concentrerà verso manifestazioni che lottano, con qualità e etica del lavoro, per contendere a questa nostra Biennale il primato di cui al momento gode.

Berlin Biennale, il Crash Pad di Andreas Angelidakis

Berlin Biennale, il Crash Pad di Andreas Angelidakis

Cosa offre in più la biennale di Venezia, rispetto a quella di Dubai, Gwangju, Istanbul, Sao Paulo, o Berlino?
Nulla.
Nulla in termini di importanza del mercato, che nel nostro Paese agonizza sotto la scure di aspetti fiscali, legislativi e politici a dir poco inadeguati. Nulla sotto l’aspetto della qualità organizzativa, se si pensa che la selezione dei curatori della prossima edizione della Biennale di Berlino (2016) ha preceduto di mesi quella del Padiglione Italia della biennale di Venezia (2015). Nulla sotto il profilo della presentazione di correnti nazionali promettenti. Ed è forse questo il maggior punto dolente dell’intera questione.
Edizione dopo edizione, la nomina a curatore del Padiglione Italia da grande opportunità corre sempre più il rischio di divenire una grande minaccia. Non è un caso che della lista iniziale di dieci curatori, due abbiano (forse saggiamente) declinato l’invito.
Pensare di curare in così poco tempo un’esposizione che dovrebbe fornire una visione capillare e critica di un panorama artistico frastagliato come quello italiano, in cui l’intreccio di interessi personali e di artisti mediocri riempie le gallerie e i vernissage, è certo un onere non da poco. Trovarsi a farlo in un’arena internazionale, e per di più con un notevole svantaggio in termini temporali (Danimarca, Israele, Armenia già da luglio avevano ben chiare le idee), non rende certo le cose più facili.
Quali saranno i risultati del lavoro di Vincenzo Trione, lo scopriremo. Ma è chiaro che se anche questa edizione del Padiglione Italia non riuscirà a convincere la critica internazionale, le responsabilità saranno imputabili anche alla sua professionalità.

Vincenzo Trione

Vincenzo Trione

Appare chiaro che l’intera organizzazione di questa nomina vada del tutto ripensata: anche se il ministro Franceschini ha adottato una linea di selezione a suo dire “trasparente”, questo tipo di criterio non può certo essere alibi per un ritardo di questo tipo. Se di trasparenza si intende parlare, inoltre, allora che siano resi noti i criteri di selezione (economici, artistici) prima che questa avvenga.
Non è difficile immaginare un processo di selezione più efficiente e più adatto ad un ruolo di questa importanza: si potrebbe pensare ad esempio ad una rosa iniziale di curatori più estesa. Si potrebbe immaginare che questi curatori vengano contattati con largo anticipo, anche il giorno dopo l’inaugurazione della Biennale. Si potrebbe immaginare una peer-review dei progetti basata su criteri stabiliti in anticipo. E fare, dopo due mesi (tre?) una prima selezione tra tutte le proposte presentate. Arrivare ad una short list, così da permettere a chi ha superato le prime fasi di strutturare meglio il progetto, inserire artisti, o correnti, apportare modifiche e integrazioni, e sulla base di questo procedere ad un’ulteriore scrematura dei candidati. Arrivare infine ad una rosa di tre curatori, tra i quali scegliere tenendo conto di una commissione di valutazione internazionale ad affiancare quella ministeriale. E rendere pubblici tali progetti, così che la trasparenza possa essere più di uno slogan e certo più di un alibi.
Queste sono solo delle idee, e di proposte di questo tipo se ne potrebbero fare tantissime. E tutte, avrebbero un livello di sensatezza di certo più elevato rispetto a quanto i nostri governi hanno mostrato negli ultimi anni.
Perché è importante sottolineare che non è in gioco solo la carriera del curatore, ma la vitalità della Biennale di Venezia. Se l’Italia non riesce a mantenere quelle qualità che nel tempo ci hanno valso questa manifestazione, il rischio che si corre, edizione dopo edizione, è che l’Italia diventi per la Biennale semplicemente uno sfondo, e che la nostra Venezia, già nota in tutto il mondo per gli effetti nefasti che una errata gestione del patrimonio culturale può portare, diventi una mera location, come uno di quegli alberghi sfarzosi in cui si tengono i meeting di settore.
A quel punto non avrà più senso, se non il rispetto che si ha per la malinconia degli antichi fasti, partecipare a questa manifestazione. E l’Italia avrà perso la sua migliore (l’ultima?) opportunità di una rinascita artistica e culturale.

– Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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