C’è Edward Hopper al telefono. All’Opera di Ravenna
La stagione d’opera del Teatro Alighieri di Ravenna si è aperta con un dittico composto da “La voix humaine” di Poulenc-Cocteau e da “The telephone” di Gian Carlo Menotti. A far da collante, lo spazio creato da Cristina Alaimo ispirato a Edward Hopper, poeta della solitudine.
Al Teatro Alighieri di Ravenna l’apertura della stagione d’opera è stata affidata a un dittico composto da La voix humaine, tragedia lirica in un atto con musica di Francis Poulenc su libretto di Jean Cocteau, e da The telephone or L’Amour à trois, opera buffa in un atto con testo e musica di Gian Carlo Menotti.
In via preliminare pare interessante soprattutto la prima parte, sia per l’incancellabile ricordo di alcuni struggenti primi piani di Anna Magnani nel film diretto nel 1948 da Roberto Rossellini, sia per la presenza a Ravenna, come unica interprete, di Alda Caiello. La virtuosa cantante esegue con malinconica compostezza la complessa partitura, così come Teresa Sedlmair ed Emilio Marcucci donano brio e molti colori ai personaggi creati alla fine degli Anni Quaranta dal fondatore del Festival dei Due Mondi.
La vera sorpresa, all’apertura del sipario, arriva però dallo spazio scenico, collante e trampolino di due così diverse proposte performative. Cristina Alaimo, giovane scenografa di origini venete con una solida formazione maturata “sul campo” a livello internazionale, lo ha ideato riferendosi esplicitamente a Edward Hopper.
Nel ricco e documentato programma di sala, l’artista dà conto con cognizione di causa della scelta fatta in occasione dell’allestimento di questo variegato dittico: “I due pezzi, da subito, mi hanno portato alla mente gli ambienti rappresentati nei quadri di Edward Hopper. Mentre Jean Cocteau scrive ‘La voix humaine’ nel 1929, rappresentazione che ha come argomento il dramma privato di una donna tra le quattro mura di una stanza, l’artista statunitense Hopper si assume l’arduo compito di conservare, sulla tela, immagini della banale vita della città, lasciandocele come testimonianza di quell’epoca. L’opera dell’artista americano, come anche la scenografia di questo spettacolo, si spoglia di paramenti e simbologie, rimanendo nuda e vuota, e l’incomunicabilità diventa soggetto del discorso, che si rivela in un monologo a due, al telefono, in Cocteau e nelle frivole chiacchiere al telefono di Menotti […] Le due opere di Poulenc e di Menotti non narrano storie importanti, se non per i protagonisti stessi […] È la spettacolarizzazione del banale, un lavoro sul privato e sull’irresistibile curiosità di guardare, non visti, l’intimità altrui”.
Coerentemente, lo spazio scenico di questo spettacolo non è mero supporto visivo, ma la risultante delle interazioni fra le diverse forze in campo: non soltanto realtà fisica, ma struttura dell’esperienza. In questo senso “operativo”, la citazione messa in scena da Cristina Alaimo rende pienamente merito al valore del pittore newyorchese: “Quando realizzava i quadri che mi hanno ispirato la scena dello spettacolo, Hopper viveva nel quartiere di Washington Square di New York. I quadri da me citati nel palco gli erano suggeriti dagli interni illuminati che il pittore vedeva quando camminava di notte per le strade della città e che successivamente ricomponeva nel suo studio, come memorie”.
Se si considera la citazione come l’inserimento di elementi esterni in un discorso allo scopo di nutrirlo e rinnovarlo, pare perfettamente sintetica la riflessione dell’estetologo José Jiménez: “L’esperienza artistica è qualcosa di totalmente individuale, come l’amore o la solitudine. Una freccia che l’individuo scaglia mettendo in pratica una proposta, e che arriva al suo obiettivo solo se alcuni dei suoi significati raggiungono un altro individuo, che si appropria di essi e li ricrea. Solo allora il colpo va a bersaglio”. Edward Hopper ha fatto centro, ancora una volta. E, con lui, Cristina Alaimo. Chapeau.
Michele Pascarella
http://www.teatroalighieri.org/
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