Dottor Anselm Kiefer, il filosofo. La lectio magistralis integrale
Il 26 novembre gli hanno conferito la laurea honoris causa in Filosofia all’Università di Torino. Parliamo del grande Anselm Kiefer. Qui, semplicemente, la sua splendida lectio magistralis. In esclusiva, il testo integrale su Artribune.
È un grande onore per me, artista, ricevere il titolo di dottore honoris causa dall’Università di Torino, tanto più che ho trascorso molto tempo in Italia e che espongo regolarmente nella Galleria Lia Rumma a Napoli e a Milano.
Giovane artista, ho soggiornato per diversi mesi a Roma e sono andato parecchie volte in Sicilia e in Puglia, dove si trova uno degli edifici più belli che io conosca: il castello di Federico II, il Castel del Monte. D’altra parte, ho partecipato sin dal 1980 alla Biennale di Venezia. Ho anche conosciuto un periodo assai fecondo a Bologna, dove Danilo Eccher mi aveva invitato a esporre nel suo museo [la GAM, N.d.R.]: una questione nient’affatto semplice per lui, perché ero arrivato con delle sculture in piombo estremamente pesanti, tanto da costringerlo a puntellare tutto il pavimento del museo con delle travi. Allora Danilo mi ha provato che in Italia tutto è possibile.
Ma, sin dall’inizio, ho sempre amato particolarmente Torino. Nel corso dei miei ripetuti soggiorni, spesso ho trascorso ore a passeggiare per le strade, ho conservato l’immagine di queste infilate di edifici che si inscrivevano in un quadro sempre cangiante tra le cime innevate delle Alpi, visioni che più tardi hanno ispirato alcuni miei quadri nel corso degli anni.
Uno di questi quadri (intitolato Wundtau regnet [Pioggia brinante]), che è oggi allestito alla Galleria d’Arte Moderna, rimanda certamente all’impressione che mi avevano lasciato le Alpi, allo choc che avevano prodotto in me, a questa città piena di meraviglie.
Non c’è dunque nulla di stupefacente nel fatto che Nietzsche abbia scritto, in questa città presa fra le Alpi e il Mediterraneo, opere sconvolgenti come L’Anticristo, Ecce homo e Umano, troppo umano; e tutti noi sappiamo cosa avvenne in seguito in piazza Carlo Alberto.
Conosco un artista austriaco che un giorno creò un’opera intitolata Reisst die Alpen nieder für eine freie Sicht aufs Mittelmeer [Spianate le Alpi per avere la vista libera sul Mediterraneo]. Voi non avete bisogno di spianare le Alpi: con le Alpi dietro e il Mediterraneo davanti, avete la vera e propria geografia dell’Occidente.
Quando ho saputo che avevate l’intenzione di accordarmi l’immenso onore di ammettermi fra i ranghi di voi professori, mi sono messo a studiare la storia della vostra università.
La storia ha sempre fatto parte del mio lavoro artistico. Dietro sollecitazione di Roland Barthes, ho ad esempio letto Jules Michelet, che è diventato uno dei miei scrittori preferiti.
Sono affascinato dalla fluttuazioni che ha conosciuto la storia della vostra università.
Forse la conoscenza di queste turbolenze, di tutte le correnti politiche che hanno lasciato traccia in città e all’università nel corso dei secoli si trasformerà in me, un giorno, in un quadro o in una scultura. Allora ci ritroveremo qui, fra dieci o vent’anni; e spero che Danilo sarà ancora nel suo museo affinché presenti qui il risultato.
Durante gli Anni Sessanta ho reinterpretato la storia e occupato virtualmente l’Italia in una maniera molto ingenua durante un’azione artistica.
Si vedono delle foto che mi ritraggono, col braccio teso, davanti al Colosseo, a Paestum, sul Vesuvio e in diversi altri luoghi dell’Italia. Entravo così nella mia storia recente, che consideravo come non appartenente al passato. Perché la famosa “ora zero” non esisteva ancora in Germania.
A differenza dei tedeschi, che ancora oggi fanno fatica a confrontarsi con il proprio passato, gli italiani capiscono le mie intenzioni: è la ragione per cui attualmente mi sento compreso e in buone mani in Italia, nella città di Gobetti e di Gramsci.
Avete assegnato il titolo di dottore a un artista. Sono dapprima stato sorpreso. Certo, ho trascorso qualche anno all’Università di Friburgo, dove ho studiato diritto e lingue romanze con Hugo Friedrich; e mio padre non era particolarmente contento di vedermi abbandonare quegli studi. Voleva che avessi un mestiere che mi nutrisse. Ma sarà indubbiamente fiero – è ancora vivo – nell’apprendere che sono infine diventato serio grazie a questo titolo.
Tuttavia, esiste una ragione ben più seria per accettare questo titolo assegnato da una facoltà di filosofia, poiché è la conseguenza logica del mio metodo di lavoro in quanto artista.
Il libro mi accompagna dalla più tenera infanzia. Ha un’importanza capitale, tanto nella mia vita quanto nella mia pratica artistica. Ritengo che rappresenti il 60% della mia opera. D’altra parte, tengo un diario nel quale annoto giorno per giorno bozze d’idee da sviluppare, schizzi, citazioni da poesie, epifanie del quotidiano… progetti, o ancora il piano delle camere d’hotel nei quali soggiorno…
Il libro è per me un rituale, struttura il tempo e fa appello ad altri poteri rispetto a quelli della cultura. Al mattino, prima di iniziare a lavorare, spesso percorro la mia biblioteca. È lunga sessanta metri, e ciò mi permette di camminare come al Vaticano. Spesso trovo il libro di cui ho bisogno, qualche che sia il soggetto. È molto curioso, come si trova ciò che vi si cerca. Sono convinto che abbiamo un accesso ai nostri libri che non passa per l’intelletto, che transita altrove rispetto al cervello.
Quando, lavorando a un quadro, mi capita di non sapere più a che punto sono, o, per dirla altrimenti, quando sono in panne, mi siedo alla macchina per scrivere e scrivo “qualcosa”.
Questo “qualcosa”, questa cosa tratta dell’essenza, della monade di Leibniz. Quando sono di fronte alla tela bianca, il che è al tempo stesso stimolante e costernante, allora un vecchio problema filosofico mi ossessiona: perché c’è qualcosa e perché non il nulla?
Qualche settimana fa alcuni ricercatori mi hanno invitato al CERN di Ginevra. L’acceleratore di particelle aveva un problema ed era stato fermato per la riparazione. Sono dunque potuto scendere, il che è generalmente impossibile a causa delle radiazioni. A duecento metri di profondità, ho potuto contemplare il sincrociclotrone aperto, il luogo in cui delle particelle accelerate alla velocità della luce si scontrano. Dopo ho partecipato a un seminario privato in cui i ricercatori mi hanno spiegato tutto quello che fanno per ritrovare le tracce delle origini del mondo. Hanno messo a punto una teoria che permette di risalire fino al miliardesimo di secondo dopo il Big Bang; ma le opinioni divergono in merito a cosa è avvenuto prima: non se ne sa assolutamente niente. Tuttavia le ricerche continuano. 1.500 ricercatori lavorano al CERN e sono connessi a migliaia di altri scienziati in tutto il mondo, i quali analizzano i risultati delle collisioni fra le particelle.
Ora, più le scienze avanzano, più ne sappiamo, e più il campo oscuro di ciò che non sapremo mai si ingrandisce.
Nell’arte succede diversamente. Gli artisti sono dei franchi tiratori. Servendosi dei diversi risultati della scienza, tentano di creare un nuovo contesto apprendendo qualsiasi cosa. La mitologia li aiuta a fornire tramite l’immagine una spiegazione coerente e non fissurata del mondo, quadri che sono incessantemente reinterpretati nel corso delle epoche.
Ricordo qui Robert Fludd, il rosacrociano, il massone, matematico, cabalista, chimico che riuscì a stabilire figurativamente la relazione fra microcosmo e macrocosmo. Penserete certamente ad Einstein che, per tutta la vita, ha tentato la medesima cosa. Ma è Robert Fludd che ha formulato questa frase al contempo poetica e celebre: “Ogni fiore sulla terra corrisponde a una stella nel firmamento”.
È così che gli scritti di Fludd e di altri cabalisti, ricercatori e poeti mi hanno aiutato a trovare la mia propria monade. La nascita di un quadro risponde a un processo complesso nel corso dell’elaborazione del quale i miei umori cambiano costantemente. Dapprima passo per uno stato fisico in cui mi sembra di essere rinchiuso nella materia stessa del quadro, essendo tutt’uno con l’esistente.
L’inizio trascorre nell’oscurità, nell’urgenza. Una palpitazione.
È indefinibile ma mi spinge ad agire. Allora entro nella materia, nel colore, nella sabbia, nell’argilla, nell’accecamento dell’istante. Ciò che si opera allora, vicinissimo a me, questo “qualcosa” paradossalmente informe è estremamente preciso. Prendo allora le distanze per distinguere quello che è lì, di fronte a me, e che mi permette di proseguire il lavoro. Un faccia a faccia al quale riferirmi all’esterno di me stesso e al quale posso oppormi.
C’è il quadro e sono qui nel quadro.
Uno stato al quale succede improvvisamente la delusione. Un terribile senso di mancanza. Una mancanza che però non è il frutto di ciò che avrei potuto omettere di rivelare.
Una mancanza che non può essere colmata da alcuna altra forma. Dovrò di conseguenza proseguire riferendomi ad altri elementi altrettanto incerti, di ordine storico, figurativo o di tutt’altra natura, come la poesia, la filosofia…
Dei testi ancorati in me, di una grande varietà e che fanno parte della mia mitologia la interpellano: ossimoro corneliano con “l’oscura chiarezza che cade dalle stelle”; territoriale con Quevedo: “Porto tutte le Indie nelle mie mani”; Osip Mandelstam mi apre “Il rumore del tempo”; Robert Fludd “La vita segreta delle piante”; Saint-John Perse mi invita al “Tempo circolare degli astri, del mare e delle donne”; Paul Celan mi offre “Corona di settembre”, “Neri fiocchi” o “La sabbia delle urne”…; ma soprattutto Ingeborg Bachmann, poetessa assoluta: “Desti nel campo degli zingari e sotto la tenda desertica, la sabbia ci scorrerà dai capelli” o ancora “La Boemia in riva al mare”…
e numerosi altri autori: Georges Bataille, Heidegger, Isaac Louria, Jules Michelet, Jean Genet, Rilke, Adalbert Stifter, Céline, Khlebnikov, Paul Valéry, per citarne solo alcuni. Poeti, filosofi, pensatori, interlocutori di sempre, con i quali intrattengo un contatto quotidiano, ai quali rendo omaggio e che ampliano lo spazio polifonico del mio lavoro.
Il quadro prende il mondo per oggetto, è il suo modo di concretizzarsi. Quando diventa oggetto, io lo espongo all’aria libera, al vento e alla pioggia. Faccio così appello alla natura, affinché mi aiuti a finirlo. Il linguaggio, le parole possono anch’esse aiutarmi. Nulla può sfuggire all’arte.
D’altronde, ho fede soltanto nell’arte, poiché senza di essa non ho appigli. Con ciò intendo un’arte forte, che si interroga per meglio superare i propri limiti. Limiti da cui si tornerà spesso metamorfosati, carichi di elementi in grado di rinnovarla.
È una realtà, la creazione di un’opera comporta un rischio positivo che deve essere preso sul serio. Ci capita allora di essere sorpresi a constatare che esiste in essa qualcosa di molto diverso rispetto a quel che pensavamo di aver creato, sottolineando così che in fondo è molto lontana da noi.
La realizzazione di un quadro è un va-e-vieni incessante fra il niente e il qualcosa. Un processo che non è sottomesso ad alcuna regola, ma che oscilla fra uno stato e un altro, finché il quadro lascia l’atelier per viaggiare nel mondo e da allora non può più essere rilavorato.
È un fatto, è assai difficile definire l’arte. Spesso sfugge alla nostra comprensione, ma una cosa è certa: l’uomo che vi parla non può vivere senza arte. Per quel che mi concerne, parlerei addirittura di una totale addiction. E sebbene incarni la più grande delle illusioni, ai miei occhi è, in uno stesso movimento, libertà e asservimento.
È così, la mia vita è asservita all’arte. L’arte mi sostiene, ci sostiene, ci brutalizza e ci ammansisce, ci distrae e ci interroga.
Una fede incondizionata nell’arte, che certo può essere frustrata, ma mai abbandonata. Poiché, in effetti, chi – a parte l’artista – può produrre del senso in un mondo assurdo? Sublime paradosso, ci riesce metamorfosando le cose più brutte, più insignificanti, in splendori.
Una statua di Minerva si trova davanti alla vostra università.
Penso qui a un quadro del mio collega Sigmar Polke intitolato Potete sempre credere ai vostri occhi?, in cui si vede una donna in levitazione, la cui testa è dipinta con veemenza. Un’allusione ad Atena, l’equivalente greco di Minerva, che nacque dalla testa di Zeus.
Ora, Minerva non solo è la patrona delle scienze, ma anche degli artisti, e spero che continuerà ad accompagnarmi sul mio cammino.
Anselm Kiefer
traduzione di Marco Enrico Giacomelli
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