Pratica della diffidenza quotidiana. Su arte ed educazione
Diffidate, gente, diffidate: è l'invito che ci rivolge Umberto Eco. Ed è il filo rosso che connette questa riflessione sul ruolo educativo dell'arte nel nostro momento storico. Sulle ali di Gianni Rodari, insieme ad artisti come Bianco-Valente e Giuseppe Stampone, Marina Abramovic e Pedro Reyes...
In grado di sfuggire ai campi di concentramento progettati dalle amministrazioni contemporanee, l’arte – e con lei alcuni campi del sapere scampati al male dell’intrattenimento culturale (dall’industria del passatempo e del divertimento che ottunde la ragione) – produce, da sempre, farmaci utili a leggere le urgenze del proprio presente. Genera palinsesti educativi che depurano la realtà per dar luogo a nuove formule puericulturiche, a progetti civici che ritornano nuovamente all’isola felice dell’educazione estetica e artistica. Un’educazione che forse è l’unica àncora di salvataggio, l’unica terapia capace di frenare la peste mediatica e demagogica che devitalizza la civiltà.
La Cittadellarte inaugurata da Michelangelo Pistoletto nel 1998, il Parco d’Arte Vivente elaborato da Piero Gilardi nel 2002, gli Espacios Terapéuticos di Monica Alonso, il prezioso lavoro estivo portato avanti da Bianco-Valente a Latronico in Basilicata, il recente programma concepito da Giuseppe Stampone con la Global Education, la pratica educativa messa a punto da Valerio Rocco Orlando con Quale educazione per Marte?, il Metodo educativo di Marina Abramovic, il Sanatorium proposto da Pedro Reyes in occasione di dOCUMENTA (13) e il luminoso programma che Maria Rosa Sossai porta avanti dal 2009 con l’associazione esterno22 (confluita nel 2012 in ALAgroup), indicano, tra gli altri, in un presente che adombra il passato e brucia il futuro, una riappropriazione, lungo i sentieri dell’educazione all’arte e con l’arte (da un punto di vista pedagogico e andragogico), del senso pubblico, di un sistema scolastico (oggi volutamente privatizzato e svuotato) necessario a sviluppare quell’indispensabile pensiero critico di fronte alle cose della quotidianità.
In questo modo la forza dell’artista – la forza della creatività aggregativa dell’artista – propone forme di restaurazione (con una coscienza non ritrattabile) che svolgono un libero percorso di formazione. Un percorso che muove dalla didattica per compiere un immediato spostamento verso un’attività pratica che dà, poi, all’esperienza scolastica il carattere stringente di una ricerca artistica. Si tratta, in molti casi, di un processo di formazione teorico-pratica che, se da una parte sperimenta forme di didattica allargata con i gruppi di operatori, studenti e cittadini impegnati in varie attività sociali, dall’altra costruisce viaggi diadromico-trasformazionali attraverso i quali i vari attori partecipano attivamente alla ricerca trasformandola in una estesa e prolungata esercitazione estetica di natura connessionale.
All’abbandono e all’incuria della scuola e dei luoghi pubblici, l’arte risponde dunque con una massiccia formula educativa (una formula che si prende cura dei luoghi e dei suoi abitanti) per reclamare un futuro migliore attraverso la creatività. Una creatività che, lo ha suggerito per tempo Gianni Rodari, “è sinonimo di pensiero divergente, cioè capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza”. Difatti è “creativa una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo agio nelle situazioni fluide nelle quali gli altri fiutano solo pericoli, capace di giudizi autonomi e indipendenti (anche dal padre, dal professore e dalla società), che rifiuta il codificato, che rimanipola oggetti e concetti senza lasciarsi inibire da conformismi. Tutte queste qualità”, conclude Rodari, “si manifestano nel processo creativo”. Così, proprio oggi che la cultura è diventata una cooltura (dove il cool è l’impronta più importante per la riuscita dello spettacolo di turno) e alcuni pensano che il turista amante dell’arte possa essere un culturista, l’immaginazione – e il modello creativo ad essa collegato – si mostra come l’unico baluardo capace di risvegliare le coscienze e di organizzare un discorso (uno spazio critico e un programma teorico) per le generazioni future.
Ritornare al fantastico vuol dire allora risolvere – o magari semplicemente risvegliare – i drammi della storia contemporanea e di una politica che ha smesso di fare politica per giocare con le vite dello stato. Dove lo Stato – che sia esso nazionale o mondiale – è convivio collettivo, unione di ogni individuo, complicità, azione e reazione, guizzante pluralità che trattiene, nel proprio seno, il germe sano della singolarità critica, della rarità creativa, dell’unicità riflessiva.
Per ritrovare un più morbido e sano ordine del discorso pedagogico e per stabilire nuove vie d’uscita dai dolori attuali, l’uomo deve riallacciare i ponti con la storia (individuale e collettiva), deve “conservare e proteggere il diritto, il bisogno di pensare e di parlare in termini diversi da quelli dell’uso comune” (Marcuse). Deve evitare l’unidimensionalità e ritornare a un pascolo felice (Platone). Deve curare l’ambito in cui si trascorrere il tempo della vita affinché anche il perno vivace del mondo, i giovani naturalmente, “come chi abita in un luogo salubre”, possano assimilare le cose giuste e corrette che si presentano “come un soffio di vento che porta buona salute da luoghi benefici”.
Perché oggi non si tratta soltanto di costruire il futuro – un futuro a misura d’uomo, più precisamente – ma di risolvere i problemi del presente. Di realizzare piattaforme stabili e spazi creativi. Di educare a quella che Umberto Eco ha definito essere una pratica della diffidenza quotidiana: un esercizio critico, disincantato e scettico, nei confronti di manipolazioni televisive, di persuasioni che ottundono la ragione e provocano stordimenti cronoestetici. Una pratica della diffidenza utile a smontare “congegni apparentemente innocui e funzionanti, per insegnare a non credere” e per far impegnare nuovamente il cittadino di fronte alle cose della vita, della realtà.
Antonello Tolve
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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