Siamo tutti outsider. Intervista con James Brett

“Non professionisti, non consapevoli, non riconosciuti, non classificabili”: questi sono gli artisti che James Brett ama e porta in giro per il mondo con la prima istituzione itinerante dedicata, che è anche la più importante organizzazione non profit britannica di settore. Parliamo di The Museum of Everything, di cui Brett è fondatore e direttore. Con lui parte la serie di interviste ai “registi” dell’Outsider Art sparsi per l’Europa, che seguono l’approfondimento su Artribune Magazine numero 22.

Mr. Brett, ci racconta quando, come e perché è nato The Museum of Everything?
Nel 2009, quando The Museum of Everything inaugurò la prima mostra, non c’era nessuna organizzazione britannica dedicata agli artisti privi di formazione accademica, con un background artistico privato o semi-privato. Di tanto in tanto c’erano delle mostre, alcune delle quali con materiale straordinario, che però tendevano a contrapporre i concetti di “inside” e “outside”, dando l’impressione di essere in contraddizione con l’arte stessa.
Quindi abbiamo deciso di fare le cose in modo diverso. Abbiamo selezionato un’ampia gamma di artisti, abbiamo curato progetti espositivi che indagassero a fondo il loro lavoro e abbiamo affiancato le loro opere a testi di artisti contemporanei e collezionisti creativi. L’idea originaria era quella di trasmettere la nostra fascinazione nei confronti degli artisti e dei loro mondi. Ma la componente narrativa del luogo – un vecchio studio di registrazione nel quartiere londinese di Primrose Hill – ha aggiunto molti strati all’esperienza, trasformando la mostra in una sorta di viaggio. Poi si è sparsa la voce, e il nostro anti-museo temporaneo ha iniziato ad accogliere migliaia di visitatori, oltre a ricevere proposte di viaggi veri e propri in varie parti del mondo. Noi abbiamo accettato.

Quanto tempo ci è voluto per concretizzare l’idea?
L’idea covava da anni, direi da quando abbiamo scoperto William Brett e il suo Museum of Everything, che è l’originale. Era uno spazio nell’Isola di Wight, pieno di artefatti della vita di Brett. Ci siamo incontrati e io gli ho chiesto – in quanto omonimo – se potevo aprirne una filiale.  William ha accettato, e così ci siamo messi al lavoro nella primavera del 2009. Abbiamo raccolto il materiale durante l’estate e in autunno eravamo pronti per cominciare… giusto in tempo per Frieze Art Fair.

Exhibition #5, Yekaterinburg - Courtesy of The Museum of Everything

Exhibition #5, Yekaterinburg – Courtesy of The Museum of Everything

In genere da dove arrivano le opere d’arte e come avviene il processo di selezione?
Cerchiamo dappertutto: dai normali studi agli spazi aperti, dai cortili ai negozi di roba usata, dai mercati alle gallerie. Qualche volta i nostri artisti sono conosciuti – è il caso di quelli che fanno parte della Collection de l’Art Brut fondata da Jean Dubuffet. Altre volte ne scopriamo di nuovi, com’è successo per Exhibition #5, il progetto di ricerca che abbiamo svolto in Russia, tra il 2012 e il 2013, spostandoci di città in città.   Per quanto riguarda il modo in cui selezioniamo gli artisti, è un compito sfuggente che ha criteri scivolosi. Tendiamo a cercare lavori che non vengono definiti “arte” oppure che non sono stati creati per una destinazione di mercato. Detto questo, prendiamo in considerazione tutto e cerchiamo di farlo sempre con gli stessi occhi e un solo fine: lo stupore.

The Museum of Everything ha accolto, fino a oggi, oltre 700mila visitatori. Si aspettava una risposta di pubblico così entusiastica?
Ci aspettavamo una risposta minima, figuriamoci centinaia di migliaia di visitatori e un successo internazionale. Se The Museum of Everything ha colto qualcosa che mancava nell’arte contemporanea, si tratta forse della nozione di democrazia che è implicita al lavoro degli artisti non professionisti, oppure un’idea del fare arte che va al di là del mondo dell’arte.
Comunque sia, alla Biennale di Venezia del 2013 c’erano oltre una dozzina di nostri artisti in un cosiddetto museo temporaneo. Cosa che, da sola, suggerisce non solo entusiasmo, ma anche risonanza.

Exhibition #3, Londra - Courtesy of The Museum of Everything

Exhibition #3, Londra – Courtesy of The Museum of Everything

Il termine Outsider Art non le piace. Ci spiega perché?
Un fuori presuppone un dentro. Suggerisce una gerarchia. È un linguaggio che in origine era inteso a scopo celebrativo, ma che con il tempo è stato usato per isolare e sminuire. Tutti gli artisti, in definitiva, si vedono come outsider. Altrimenti sarebbero ragionieri. Ma poi di nuovo, un ragioniere artista è per certi versi un outsider. Cosa che fa di un normale ragioniere non artista un outsider rispetto agli outsider.  ù
Jeff Koons e Damien Hirst sono degli outsider. Barack Obama è un outsider. Gesù Cristo e Maometto erano outsider. E dimostrano che non c’è un dentro: c’è solo un immenso fuori. Il termine Outsider Art suona senz’altro molto bene, ma è di un bigottismo senza senso. “Il linguaggio è un virus venuto dallo spazio” (William Burroughs). “Space is the place” (Sun Ra).

Qualche anticipazione sui progetti futuri?
Olanda, Messico, Polonia, Australia. Spesso progettiamo grandiose installazioni che segnaliamo con mezz’ora di preavviso, quindi tenete d’occhio il nostro sito.

Sara Boggio

www.musevery.com

 

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Sara Boggio

Sara Boggio

Dopo la laurea in Lettere Moderne ha lavorato come writer, redattrice e traduttrice per diverse case editrici, in Italia e in Australia, dopo quella in Pittura è stata tutor di Storia dell'Arte Contemporanea presso l'Accademia di Belle Arti di Torino,…

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