Le mani sulla città. Mafia Capitale, cinquant’anni dopo il film di Rosi
Il 2 dicembre 2014, con l’arresto di Massimo Carminati, scoppiava lo scandalo della mafia romana. Pochi giorni prima era uscito in dvd, per la prima volta, “Le Mani sulla Città” di Francesco Rosi, Leone d’Oro nel 1963. Coincidenza inquietante. Un film monumento, forse oggi il più atroce ritratto cinematografico del paese. Rivederlo, col senno di poi, getta una luce sinistra sull’immobilità di un sistema trasversale, edificato su una democrazia incompiuta
L’uomo vestito di tutto punto – camicia linda, giacca, cravatta, paltò di cachemire – affonda le scarpe nella polvere e si rivolge alla piccola platea in piedi: un coro di sodali, coinvolti nell’astuto stratagemma. L’uomo svela le regole del gioco,senza allusioni, né esitazioni. Insegnando ai suoi uomini, dall’alto della collina, in che direzione si orienta il gioco del potere. E dove occorre mettere le mani. Per spostare capitali, risorse, voti, poltrone; ma soprattutto porzioni di città: immaginare nuove periferie, riempire i vuoti, abbattere, costruire, espandere, decentrare. Un horror vacui intitolato al delirio del mattone, in barba ad ogni piano regolatore. In una sola parola: speculazione. “Questa è zona agricola?”, chiede l’uomo, tracciando con un bastone quattro linee sul terreno.“E quanto la puoi pagare ora? 300, 500, 1000 lire al metro quadrato? Ma domani questa stessa terra, questo metro quadrato, ne può valere 60/70mila e pure di più. Tutto dipende da noi, il 5.000 % di profitto”.
Comincia così, con uno sguardo a volo d’uccello sui palazzoni grigi di una Napoli povera e in espansione, il film di Francesco Rosi, vincitore nel 1963 del Leone D’Oro al Festival del Cinema di Venezia, scritto insieme a Raffaele La Capria. “Le mani sulla città” è un’opera decisiva, a suo modo epica, una pietra miliare nel racconto spietato del Paese, così come si andava definendo nel corso della seconda metà del Novecento, nel bel mezzo di un boom economico senza pari: l’Italia, affamata di benessere, era figlia di una democrazia giovane ma ormai stabile, rodata; eppure incompiuta, per definizione. Come incompiuto era il senso dell’essere Nazione, cittadinanza, comunità. Tra familismo, personalismo e una coscienza civica mai elaborata.
Quello di Rosi è un ritratto che ha la forza categorica della fotografia e la complessità monumentale della narrazione. Un’immagine scolpita nella memoria, legata a un passaggio storico esatto, ma al contempo organica, strutturale. Sono passati cinquantuno anni dall’uscita di quel film. Ed è come se non si fosse mossa una foglia. Dalla prima alla terza repubblica, fra radicali mutamenti delle geografie politiche, fra nuovi volti, assetti ed equilibri, il film-oracolo di Rosi torna, crudele, a dirci la verità.
L’intuizione geniale fu quella di sottrarre lo sviluppo della storia a una prevedibile – e per quei tempi attualissima – disputa ideologica tra forze contrapposte e complementari. Lo schema narrativo è in realtà semplice, suddiviso tra l’antieroe (esponente di una destra affarista e spregiudicata), l’idealista combattente (un agguerrito consigliere del PCI, mai stanco di denunciare) e la foschia di un centro falsamente moralizzatore, disponibile a qualunque manovra di palazzo, composto da una fauna variegata (dal democristiano cinico a quello più virtuoso).
L’uomo della collina era il consigliere comunale e imprenditore edile Edoardo Nottola, interpretato da Rod Steiger, emblema del politico senza scrupoli, che usa la poltrona per i propri interessi. Il paradigma del compromesso tra pubblico e privato è tutto nella sua figura grigia, nelle sue gesta da stratega di partito, nelle sue parole prive di pudore (“Niente affanni e niente preoccupazioni: tutto guadagno e nessun rischio”). Nottola compra voti, consensi, incarichi e favori, inseguendo l’utopia sbagliata dell’espansione edilizia. Contro di lui si scaglia l’opposizione di sinistra, capeggiata dall’onesto consigliere De Vita (ruolo affidato a un vero politico, il comunista Carlo Fermariello). La partita a sacchi porterà ad un patto elettorale tra il centro e la destra, orchestrato da Nottola per salvarsi dopo lo scandalo del crollo di una sua palazzina, evento tragico che scombussolerà gli equilibri, catturato con l’occhio crudo di un neorealismo critico, militante, oltre la maniera.
Ma in tutta questa distribuzione di pesi, di tattiche, di forze, non v’è traccia di una reale contrapposizione ideologica, di un’analisi politica, di un giudizio morale che vada al di là dei singoli personaggi. Destra, sinistra e centro sono contenitori vaghi di un teatro senza tempo, strumentali alla dialettica del potere e della sceneggiatura.
Lo scorso 18 novembre il capolavoro di Rosi è arrivato in dvd, con la distribuzione di Mustang Entertainment. Due settimane dopo, per una inquietante coincidenza, giornali e tv aprivano tutti con lo stesso scandalo: l’inchiesta “Mafia Capitale”. L’arresto del criminale Massimo Carminati, ex neofascista di ferro, vicino ai Nar e alla Banda della Magliana, spalancava una voragine inaudita ai piedi del Campidoglio. Una catastrofe giudiziaria che ha trascinato con sé consiglieri, dirigenti, amministratori, imprenditori – incluso l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e Salvatore Buzzi, capo di una cooperativa rossa – coinvolti in una storiaccia di appalti e di tangenti, eletti a sistema e sorretti da un giro malavitoso.
Non più Napoli, dunque, ma Roma. Non l’abusivismo edilizio, ma la criminalità dei colletti bianchi, delle partecipate, delle cooperative sociali, dell’assistenza agli immigrati o della manutenzione delle aree verdi cittadine. Cambiano le date, i luoghi, le circostanze, ma non la sostanza: città svendute in nome del profitto privato, in un losco intreccio fra lobby economiche, mafie locali e istituzioni. Alla base la sete di denaro. Nient’altro che denaro. Una promiscua litania della corruzione, capace di insinuarsi trasversalmente e capillarmente nel tessuto sociale.
E la questione morale? Roba da campagna elettorale, un refrain a misura di salotti tv o a commento dell’ennesima magagna. “Caro Balsamo, in politica l’indignazione morale non serve a niente. L’unico grave peccato sa qual è? Quello di essere sconfitti”. Così diceva De Angelis, futuro sindaco, al consigliere Balsamo: il vecchio democristiano, col pelo sullo stomaco e un pragmatismo da manuale, insegnava la politica al giovane candidato idealista, pronto a tirarsi indietro di fronte all’ipotesi di imbarcare uno come Nottola.
È uno dei momenti più illuminati della pellicola, sintesi dell’ipocrita paradosso in cui si infilano teoria e prassi politica: è più giusto sottrarsi, dinanzi a ciò che si condanna, oppure restare nell’arena, puntando alla vittoria per provare – magari – a cambiare le cose? Ma denunciare dall’interno è possibile davvero?
Rosi smaschera le logiche ambigue della giostra del potere, svelandone l’essenza. Da un lato i disonesti, dall’altro gli accondiscendenti, i distratti, i deboli, i sordomuti, gli idealisti sconfitti, per circostanza o per convenienza.
Cinquant’anni dopo arriva l’ennesima conferma. Siamo com’eravamo. Un catalogo di corrotti e corruttori, di cambia casacca e di parvenu, di ladri di polli e di registi criminali; una politica ridotta a tattica efferata e d esercizio delle clientela. A destra come a sinistra.
Da dove ripartire? Il film di Rosi non lascia chance. Claustrofobico, feroce, schietto, restituisce uno spaccato inamovibile del reale, oltre ogni retorica ottimista e ogni lettura laterale. Un’opera asciutta, rigorosa. E oggi?
All’ombra di Mafia Capitale, oggi si prova a capire come uscirne vivi. Cambiare gli uomini, sostituire le mele marce, si può e si deve. Ma non saranno un commissariamento di partito, una repubblica numero quattro, il prossimo populista al potere o l’effetto di un’impietosa rottamazione, a disegnare l’Italia pulita di domani. Perché L’Italia è questa qui, la stessa di mezzo secolo fa, la stessa di cui Bettino Craxi diceva, in uno storico discorso pronunciato alla Camera il 3 luglio 1992: “Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. […] E così all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti e, ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare od illegale”. Due anni dopo questa autodenuncia austera, il segretario del Partito Socialista fuggiva ad Hammamet, travolto dagli scandali di Mani Pulite.
1963, 1992, 2014. In mezzo secolo, il diagramma di un normalità granitica, orientata a una promiscuità progressiva. E nel vortice che trascina verso il basso classe politica e società civile – l’una specchio dell’altra, troppo sposso colluse, partorite da un medesimo humus – la corruzione italiana si conferma come un fattore endemico, obliquo, virale, al cui contagio si sono esposti anche quei partiti nati come fronte antisistema, in origine alfieridi principi morali e legalitari. Diventare forze di governo, nel tempo, ha significato uniformarsi, capitolare.
E allora, in un paese moralmente confuso, politicamente immaturo, intimamente disgregato, più che sperare in una rinascita morale, ci sarebbe da imporre una rivoluzione strutturale. Semplificazione, trasparenza, sburocratizzazione, controllo. Leggi anticorruzione e architetture di vetro. E dunque colpire la selva delle partecipate, la miriade di stazioni appaltanti, il buco nero di norme e rendicontazioni; e ancora selezione della classe dirigente, misura del merito, perseguibilità dei reati: un fatto amministrativo, culturale, sistemico. Che precede il tema dell’inasprimento delle pene e iturnover di segretari, dirigenti, candidati.
“La questione non si pone in termini morali: la esamini da un punto di vista politico…”, suggeriva De Angelis al giovane Balsamo.Una maniera per ribadire che politica e morale sono due rette parallele. Farle incontrare è una sfida non euclidea, successiva solo ad una rivoluzione plastica. Mentre nell’indistinto pantano rosso-nero, lo scandalo di una “mafia capitale” si compie, nel silenzio generale. Non solamente a Roma.
Oggi i Rom, gli immigrati, gli occupanti delle case popolari, i lavoratori precari e gli ex detenuti delle coop; ieri – nella Napoli di Rosi – un volgo strumentalizzato: travolto da macerie, sgomberato, difeso sui giornali e subito abbandonato, comprato, circuito, manipolato (“Ci vuole poco a farli contenti. Basta che gli diamo un avvenire per loro e i figli loro, e voi avete tutti i voti che volete”, consigliava qualcuno ad un confuso Nottola, finito nell’occhio del ciclone). Il corpo fragile del proletariato come bacino elettorale, business edilizio, occasione di propaganda e di speculazione.
Il film, sulla spinta di un movimento circolare, si chiude là dov’era cominciato. Stessa location, stesso ordine delle cose. La parte corrotta vince la sua sfida e rimette le mani sulla città, col battesimo di un mega cantiere miliardario, salutato da cardinali, uomini della nuova giunta, vecchi e giovani speculatori. Al centro c’è lui, Nottola, divenuto assessore all’edilizia e ancora immerso nei suoi affari di imprenditore, a incarnare l’odioso conflitto d’interessi e la sua legittimazione istituzionale.
Silvio Berlusconi sarebbe sceso in campo esattamente trent’anni dopo, nel 1993, mentre Craxi fuggiva in Tunisia. Vent’anni più tardi, in uno scenario politico stravolto, uno scandalo epocale avrebbe risucchiato Roma, scoperchiando un nuovo pozzo degli orrori. L’unico grave peccato: essere sconfitti. Dinanzi alla Storia, prima che in una partita elettorale.
Helga Marsala
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati