L’anarchico Pinelli, ucciso da un “malore attivo”. Il 15 dicembre di 45 anni fa
È trascorso quasi mezzo secolo dalla morte (accidentale?) dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Un mistero mai sciolto, nemmeno dopo la sentenza che zittiva ogni sospetto di omicidio. Sullo sfondo la strage di Piazza Fontana. Oggi, in memoria di quei fatti, pubblichiamo il film di Elio Petri e Nelo Risi
Lunedì 15 dicembre 1969. Mezzanotte circa. Questura di Milano, alcuni giornalisti in sala stampa, negli uffici sono in corso da tre giorni gli interrogatori di decine di anarchici, fermati a seguito dell’esplosione di una bomba a Piazza Fontana, nel pomeriggio del 12 dicembre. A mezzanotte di lunedì, in una delle stanze del palazzone di Via Fatebenefratelli, carabinieri e funzionari stanno ascoltando – tra gli altri – l’anarchico, partigiano e ferroviere Giuseppe Pinelli. L’indagine va in una direzione chiara, i fermi – a tappeto – si prolungano oltre i termini consentiti (tre giorni di fila), con interrogatori estenuanti. I morti di Piazza Fontana esigono un colpevole.
Ma quello che resterà – in un’indagine lunghissima, complessa, durata decenni e conclusasi con un nulla di fatto, tra prescrizioni, falle ed assoluzioni – sarà un’altra salma, un altro cadavere innocente. Una morte per caso o per intenzione: anche in questo caso, con prolungato affanno, il dubbio fu greve come un macigno.
L’anarchico Pinelli precipitava dalla finestra di un ufficio della questura, intorno alla mezzanotte di quel lunedì. Il suo interrogatorio era in corso. Il commissario Calabresi – a sentire le testimonianze raccolte – non era in quella stanza. Si parlò di suicidio, sul momento. Ma lo spettro dell’omicidio si impose, fin da subito, scatenando il panico e una sequela di sospetti, nel cuore di un’inchiesta già convulsa. Le incongruenze, le false testimonianze, le dinamiche oscure, le fortissime tensioni politiche del momento, contribuirono a far montare il caso: chi aveva ammazzato Pinelli e perché?
La vicenda si chiuse con la sentenza del Giudice D’Ambrosio, nel 1975: né suicidio, né omicidio. Pinelli era morto per un “malore attivo”. Stanco, spossato, infreddolito, intossicato dalle troppe sigarette, ebbe un mancamento e cadde, perdendo l’equilibrio in prossimità di quel maledetto davanzale. Quel macigno, però, non ha mai smesso di gravare sulla coscienza dell’opinione pubblica e dei tanti protagonisti dei fatti di Milano. Un dubbio incancellabile.
Il Commissrio Calabresi, totalmente sollevato da ogni responsabilità, divenne vittima di una campgana accusatoria da parte degli ambienti di estrema sinistra, con tanto di minacce e intimidazioni. Morì, anche lui, il 17 maggio del 1972, giustiziato da un commando di Lotta Continua.
Pinelli morì, ma ottenne, alla fine degli anni ’70, l’onore di un’assoluzione piena: per i giudici né lui, né gli altri compagni, erano i responsabili della strage, attribuita invece (troppo tardi e con mille inghippi processuali) al gruppo neofascista Ordine Nuovo.
Fra le tante pagine, i libri, gli articoli, i documentari, dedicati alla morte dell’uomo, c’è un lungometraggio, dal titolo “Documenti su Giuseppe Pinelli”, girato nel 1970 e composto da due parti, “Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli” e “Giuseppe Pinelli”, dirette rispettivamente da Elio Petri e Nelo Risi. Il progetto prese il via per mano del “Comitato cineasti contro la repressione”, un gruppo messo su da Petri con lo sceneggiatore Ugo Pirro, all’indomani della strage di Piazza Fontana, mentre la polizia si accaniva contro i gruppi extraparlamentari.
Diversi cineasti aderirono all’operazione, lavorando alla produzione di materiali filmici e sposando una finalità politica, di indagine e di denuncia. “Siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo…”: così comincia la mise en scène ironica e cruda di Petri, che articola le tre versioni discordanti fornite dalla polizia intorno alla morte di Pinelli. Un cinema brechtiano, sperimentale, di impegno civile, che affida il soggetto adn alcuni attori (tra cui Gian Maria Volonté) in dialogo diretto col pubblico, svelando i meccanismi della rappresentazione e puntando all’effetto destabilizzante del cortocircuito. Un mucchio di non verità e di incoerenze, per occultare le ragioni di una morte assurda. Di cui ancora sfuggono dinamiche e ragioni.
Il 15 dicembre, anniversario della tragedia, ancora si ricordano l’onore, la tenacia e l’utopia politica di un ferroviere anarchico, ucciso da un “malore attivo”, mentre difendeva la sua innocenza dinanzi allo Stato: capro espiatorio, testimone scomodo? O davvero un uomo tradito da un improvviso mancamento? Forse, per dirla con Petri, solo “l’ultimo di una lunga serie di anarchici suicidi”.
Helga Marsala
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