Dialoghi di Estetica. Parola a Carsten Nicolai

Dopo quello con Jodorowsky, un altro “Dialogo” atipico: quello con Carsten Nicolai a.k.a. Alva Noto, che per ragioni di tempo ha voluto seguire una prassi precisa: “Mandami le domande via mail e io registro le risposte con un registratore vocale, per poi mandartele in mp3”. La parola pensata (la mia) diviene testo scritto per poi farsi dato numerico: un file di testo da inviare all’artista. Ritornata voce (quella di Carsten) si rifà dato, un file mp3 da rispedire al mittente. Non male come inizio, se è vero che il mezzo è il messaggio…

La tua ricerca artistica continua a utilizzare (e a farsi ispirare da) concetti prelevati di peso dalla scienza. Che ne pensi del binomio arte/scienza, spesso vera e propria linea direttiva per il lavoro di alcuni artisti?
La scienza continua a essere una delle maggiori fonti d’ispirazione per il mio lavoro. Non credo tuttavia che l’arte aiuti a comprendere meglio la scienza, anzi trovo molto pericolosi i tentativi fatti in questa direzione. Piuttosto direi che arte e scienza lavorano su un piano comune. Entrambe, infatti, operano in aree ancora relativamente inesplorate dall’intelletto umano.
A mio modo di vedere, l’artista lavora con modelli simili a quelli dello scienziato, magari non passibili di prove la cui accuratezza sia garantita da formule matematiche, ma basati su uno stesso meccanismo: si tratta in entrambi i casi di griglie interpretative che ci aiutano a capire meglio in che tipo di mondo siamo situati. Con la differenza, non di poco conto, che nella scienza abbiamo la possibilità di esibire prove del risultato cui siamo giunti: cerchiamo qualcosa, e proviamo a costruire un modello esplicativo che richiede di essere provato. Solo quando la consistenza di un modello interpretativo ha superato la prova dei fatti possiamo passare all’utilizzo di un nuovo modello ancor più raffinato.  

“Future Past Perfect” by Carsten Nicolai – NOWNESS from NOWNESS on Vimeo.

In una serie di sculture di qualche anno fa – le nuvole di future past perfect pt. 04 e di wolken, entrambe del 2013, oppure le sculture di cluster, del 2008 – proponevi un parallelismo tra processo creativo (la forma finale delle opere, stadio ultimo di un processo aleatorio) e processo biologico (la forma biomorfica di determinati grappoli cellulari o degli stratocumuli)…
Si tratta di opere sempre basate su processi aleatori. In cluster questo è particolarmente evidente: si trattava di riempire un pallone gonfiabile con duecento palline da ping-pong, lanciarlo per ottenere forme plastiche del tutto irregolari e successivamente immergerlo in argentone (una lega metallica di nichel, zinco e rame argentata galvanicamente). L’opera viveva dunque della coesistenza tra un principio di disordine – la serie infinita di possibili combinazioni di forme casualmente determinata dal lancio del pallone – e una serie di principi determinati – la forma delle palline da ping-pong, la superficie del pallone.
Quando ci poniamo di fronte alle opere che citi, abbiamo quindi contemporaneamente davanti ai nostri occhi un oggetto – il risultato finale di un processo – e la storia del processo che ha creato una nuova forma, un oggetto finito. Il processo creativo, un processo altamente stratificato, non è più visibile nell’oggetto finito, eppure ha lasciato una traccia indelebile del suo accadere nel modo di essere di quell’oggetto.

Credi che il caso abbia una funzione simile nel determinare tanto processi biologici quanto processi creativi (o artistici)?
Cercare di spiegare che ruolo giochi il caso nel determinare processi biologici o processi creativi è uno degli obiettivi fondamentali del mio fare artistico. Sono costantemente alla ricerca di principi costruttivi in grado di produrre figure o forme: processi che iniziano a essere dotati di senso solo nel momento in cui producono figure o forme.

Carsten Nicolai, Cluster, Museo Andersen, Roma - photo Chiara Ferrara

Carsten Nicolai, Cluster, Museo Andersen, Roma – photo Chiara Ferrara

Però nel tuo libro Grid Index partivi dall’ipotesi secondo la quale la totalità delle informazioni visive disponibili, in arte come in scienza, sarebbero in ultima analisi riconducibili a griglie e pattern bidimensionali. Il libro cerca di rintracciare un codice valido per tutti i sistemi visivi esistenti in un’equazione di griglie e pattern da te collezionati nel tempo…
Ho collezionato nel tempo questa serie di pattern e griglie che ritengo fondamentali, non solo per il background di tipo matematico che sta dietro alla loro genesi, ma soprattutto perché costituiscono un ottimo esempio della dialettica semplice-complesso che si cela tanto dietro alla creazione di opere d’arte quanto dietro alla stragrande maggioranza degli eventi studiati dalla scienza. Il libro è semplicemente uno strumento di lavoro: è l’equivalente dello spartito per un musicista.

Secondo il Paul Klee del Pedagogical Sketchbook, nel quale pure si parlava di qualcosa di simile – un punto, considerato come elemento atomico, genera linee, piani e altre strutture complesse – esperimenti del genere condurrebbero all’idea (all’ideale?) di un linguaggio visuale universale e non-figurativo: quasi una formula universale di goethiana memoria alla quale poter ricondurre tutti i linguaggi artistici, e in primo luogo arte del suono e arte del colore.
Grid Index è un libro che cerca semplicemente di rispondere alla domanda: come è possibile costruire delle griglie e in che modo, attraverso di esse, prendono forma strutture complesse? Da questo punto di vista, stiamo parlando di un linguaggio universale esattamente come universale è il linguaggio del suono, dell’arte, della matematica. Ma non avevo l’intenzione specifica di proporre una nuova formulazione del linguaggio artistico universale di goethiana memoria.

Carsten Nicolai

Carsten Nicolai

Il progetto di ricerca che vi sta dietro, allora, è simile a quello dell’Arte Cinetica, Optical o Programmata. Anche alcune delle tue opere più recenti (unicolor, 2014; unidisplay, 2012) sembrano andare in quella direzione…
La gran parte dei critici che parlano del mio lavoro finisce per citare i nomi dei rappresentanti storici dell’arte cinetica, optical o programmata degli Anni Sessanta e Settanta. E io non posso che convenire, perché è come se una stessa sensibilità estetica ci legasse idealmente pur a distanza di decenni, come se uno stesso, inalterato bisogno di reagire al predominio del figurativo e del narrativo – un bisogno d’astrazione – si sia reincarnato in una generazione di nuovi giovani artisti.

Anche nella tua ricerca musicale, portata avanti con il progetto Alva Noto, astrazione sembra rimanere la parola chiave…
Sì, ma tenendo conto che si astrae sempre a partire da qualcosa che esiste in natura, per arrivare a qualcos’altro che, invece, non ha nulla a che fare con la realtà. Se è vero che l’arte dovrebbe perseguire gli obiettivi di espandere gli orizzonti rispetto al già noto e di generare fonti di energia che la vita quotidiana altrimenti non offre… Beh, presto o tardi dovrà per forza imbattersi nel linguaggio dell’astrazione. Quello della matematica è un linguaggio di cui ci si può servire, ma questo non significa che si debba necessariamente passare attraverso di essa. L’arte può essere astrazione anche senza matematica.

Negli ultimi anni hai iniziato a lavorare con la parola, però, tra l’altro collaborando con il poeta concreto Anne-James Chaton. C’è un’intenzione precisa dietro?
La cosa risale a qualche anno fa, a quando stavo lavorando all’album Unitxt (r-n, 2008), ma anche nei dischi più recenti ho continuato a sperimentare sull’interazione tra suono digitale e voce registrata – per esempio in Décade (r-n, 2012), con Chaton e Andy Moor dei The Ex, ma anche nel mio ultimo disco Univrs (r-n, 2011). Quando ho iniziato a pensare all’intelaiatura ritmica di Unitxt non avrei mai immaginato di inserire degli inserti spoken word al suo interno…

Cos’è che ti ha fatto cambiare idea? In effetti il brano Uni Acronym è diventata una delle tue hit – se è possibile parlare di qualcosa del genere per quanto riguardo la tua musica – nonché un esempio magistrale di una nuova forma di poesia sonora, quella che Olivier Cadiot e Pierre Alfieri definivano nella Revue de littérature générale “meccanica lirica”…
L’incontro con Chaton è stato da questo punto di vista decisivo. Molte cose hanno fatto sì che ci avvicinassimo: simili strategie di lavoro, un comune interesse per l’astrazione, una certa ripulsa per il narrativo, lo stesso modo di vedere-il e stare-al mondo. Abbiamo iniziato a lavorare su alcune tracce che sono rimaste nel cassetto per molto tempo: poi ho realizzato che la parola come puro suono, astratta dal proprio significato, poteva diventare un elemento ritmico tra gli altri, una meccanica lirica, appunto, o una lirica meccanica. In più mi sembrava che come resa finale tutto funzionasse alla meraviglia. Anne-James costruisce i suoi poemi anti-narrativi seguendo proprio una logica simile: astrazione dal significato, parola come ritmo, costruzione di architetture sonore.

Vincenzo Santarcangelo 

www.carstennicolai.de
www.alvanoto.com

 

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Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo insegna al Politecnico di Torino e allo IED di Milano. Membro del gruppo di ricerca LabOnt (Università di Torino), si occupa di estetica e di filosofia della percezione. È direttore artistico della rassegna musicale “Dal Segno al Suono”,…

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