Contro Cassandra e in morte di dodici uomini. Su Charlie Hebdo e Michel Houellebecq
La coincidenza è di quelle che di solito gli storici rilevano anni dopo, spostandone la posizione dall’aneddotica ai concorsi di causalità. Il 7 gennaio 2015 due killer sono entrati al grido di “Dio è grande” nella redazione di un giornale satirico francese, il famoso Charlie Hebdo, e hanno fatto fuoco sui giornalisti, uccidendo dodici persone…
Raccontato così può sembrare l’incipit di un romanzo scritto di questi tempi, può ricordare vagamente una delle scene cruciali di Neve di Orhan Pamuk, o potrebbe essere appunto l’inizio di un libro che ancora in pochi hanno letto, dato che è uscito lo stesso 7 gennaio in Francia e arriverà in Italia solo il 15. Sto parlando di Sottomissione di Michel Houellebecq. Storia della trasformazione della Francia e poi dell’Europa in una repubblica islamica.
Purtroppo però quel che è successo non è un’abile mossa promozionale, come quella riuscita a Orson Welles il 30 ottobre 1938, quando dagli studi della radio CBS trasmetteva lo sceneggiato La guerra dei mondi senza alcun preambolo, come se fosse una notizia vera, gettando così nel panico gli ascoltatori americani posti di fronte alla cronaca di un’invasione aliena. Stavolta è tutto vero. Ma vero sul serio. Mentre scrivevo queste riflessioni c’erano dodici corpi freddi a terra. Per le strade di Parigi, una caccia all’uomo che mi auguro si concluderà presto e ci sono molte domande aperte che non sono destinate a esaurirsi alla fine delle trasmissioni dei network che stanno raccontando questa storia.
Ma riprendiamo la vicenda da capo per poterla meglio comprendere. Tutto comincia con una coincidenza, appunto. Esce un libro. È un testo di cui si parla da settimane. Gli intellettuali di mezzo mondo lo hanno già letto in anteprima e si rimbalzano commenti che hanno due semplici temi: la credibilità della vicenda e lo sfinimento dell’Europa. Pare che Michel Houellebecq, autore controverso dell’ultima grande generazione letteraria francese, abbia compiuto quel piccolo miracolo narrativo che permette al lettore di confondere realtà e fiction in un orizzonte di verosimiglianza talmente mimetico da far equivocare il romanzo con il saggio.
Questo articolo non è una recensione del libro e, dunque, non mi dilungherò in una descrizione della storia e delle sue varie implicazioni. Definirò subito di cosa si parla in questo Sottomissione, che è poi una delle traduzioni letterali della parola ‘Islam’. In questo libro si parla di sfinimento. E nello specifico è allo sfinimento di una civiltà che ci si riferisce, quella europea. È sulla base di questo concetto che tutto diventa possibile, che qualcun altro può prendere possesso della Storia gettando al macero il patrimonio acquisito in anni o secoli di conquiste e battaglie per elevare la dignità dell’uomo. Ed è sulla base della constatazione di questo sfinimento che intellettuali come Emmanuel Carrère o Michel Onfray hanno benedetto questo romanzo come una sorta di profezia quasi inevitabile.
Ma la profezia di cosa, in effetti? Dell’islamizzazione dell’Europa? Sarebbe una profezia assai poco brillante, considerando che l’Europa di oggi è ampiamente islamica e che le statistiche sulla crescita della comunità che si riconosce in questo credo religioso sono in costante crescita. La profezia vera riguarda piuttosto le conseguenze di una malattia retorica che tutto può consentire, ovverosia l’uso del concetto di sfinimento come giustificazione. Quando si comincia a riconoscere lo sfinimento di un popolo si aprono le porte a qualunque conseguenza. Un popolo sfinito può calpestare il suo corpus giuridico, un popolo sfinito può abdicare alla propria libertà nei confronti di un tiranno che promette pane, un popolo sfinito può diventare l’aguzzino di se stesso o di altre comunità più deboli. Ed è, nei fatti, ciò che accade nel libro di Houellebecq.
Ma qui mi si consenta una piccola analogia. Alcuni mesi fa, a Roma è stata cancellata l’esperienza culturale più importante e visibile a livello internazionale di questi ultimi anni. Con essa si è perduto un patrimonio, controverso quanto si vuole, di battaglie politico-culturali portatrici di molteplici spunti essenziali per il ripensamento di quello che resta il principale asset di questo Paese, ma che l’attuale apparato dello Stato non sembra più in grado di gestire. La giustificazione di questo azzeramento, annichilimento di una storia che potrebbe biologicamente essere paragonata a una interessante coltura di elementi in partenza nocivi (illegali) e che però avrebbero potuto produrre delle nuove molecole capaci di curare la malattia culturale italiana, è stata quella di dire: “Ma ormai anche loro erano sfiniti”. E così, con questa giustificazione si è tolto il giocattolo dalle mani di un gruppo di ragazzi bollati come sfiniti e lo si è buttato nel fuoco. Il patrimonio sviluppato in tre sorprendenti anni di lavoro, per quanto controverso, è stato perduto completamente, un po’ come è successo alcuni mesi fa quando un blitz animalista in un laboratorio del Cnr distrusse – secondo le ragioni della propria ideologia – anni di ricerca sul Parkinson e sulla sclerosi multipla.
Ho fatto questo microesempio, così facilmente identificabile e calcolabile, per dire che anche l’Europa è una comunità di persone sfinite. E che quindi prima o poi qualcuno più energico potrà dire che ci ha tolto la nostra storia, la nostra civiltà, la nostra libertà dalle mani, perché ormai eravamo troppo stanchi per gestirla e che ora ci penseranno loro. Ma loro chi? Quelli che hanno ancora voglia di lottare per qualcosa in cui credono. E qui non si parla di religione – lo si dica per una volta in modo ben chiaro – ma di politica. L’Islam dei vari guerriglieri della sharia non ha nulla di religioso e tutto di politico. È piuttosto un uso improprio della religione non dissimile da quello che facemmo noi cristiani all’epoca delle Crociate. Non è diverso dal nazismo che iniziò a serpeggiare nella Germania di prima del ’33. Anche allora c’era uno stato sfinito da rilevare. C’era una Repubblica di Weimar che non trovava più la propria strada, strangolata dalla crisi economica e dalla perdita dei propri ideali. Il suo popolo si arrese alle stronzate dei nazisti, che promettevano un miracolo reale, nuova prosperità, nuova forza. Un miracolo che si realizzò, attenzione: la Germania tornò potentissima. Ma a quale prezzo?
Ieri due killer sono entrati nella sede di un giornale e hanno sparato su dodici persone. È il segnale che l’Europa è sfinita. È il segnale di un’Europa che non significa più nulla, che non ha ideali, non ha una strada, non ha più una comunità coesa. È il segnale di un continente intero in cui i valori rapidamente sono scomparsi, sostituiti da un’odiosa ignoranza, in cui l’istruzione impoverita è diventata sempre meno capace di dare un argine al dilagare del fanatismo e in cui si è smesso da decenni di compiere una battaglia per la cultura che non sia volta a impedire una qualche invasione barbarica, ma che sia prima di tutto necessaria a ridare una dignità ai rapporti umani interni alle nostre comunità, sempre più preda di intolleranze, xenofobie, incapacità di trovare un orizzonte relazionale ed evolutivo.
Si dirà che questo scenario è stato possibile perché l’Europa è ormai sfinita. Ma la mia domanda è: abbiamo noi il diritto di essere sfiniti? Abbiamo forse il diritto di sottometterci – come direbbe Houellebecq – al nulla dello sfinimento che apre le porte a ogni incubo? Se noi europei, campioni di libertà, di garanzia, di uguaglianza, ci dichiariamo sfiniti apriamo la porta a qualcuno – neonazista, quaedista, poco importa – che verrà, prenderà tutto e lo butterà nel fuoco per poi giustificarsi dicendo di noi: “D’altra parte loro erano sfiniti”.
Nessuno difenderà l’Europa al posto nostro. Nessuno rispetterà il grande patrimonio di civiltà che questo continente rappresenta, se non saremo noi stessi a farlo. Ma anche qui, noi chi? Perché non è dallo spazio che vengono i nostri possibili invasori, ma dalle nostre stesse città, come i nazisti in Germania, come i quaedisti dalle periferie degradate della Francia. Noi siamo quelli che credono ancora che ogni passo compiuto per la libertà in questi secoli dalla comunità dei nostri padri sia il passo di un cammino che non è giunto a conclusione, ma che è ancora lungo.
Non dobbiamo difendere, infatti, quello che abbiamo, ma quello che desideriamo. Non dobbiamo difendere l’Europa che c’è – questo suicidio politico, questo corpo sclerotico ridotto ormai, per dirla con Metternich, a semplice espressione geografica, o peggio economica. Dobbiamo difendere l’Europa che verrà, l’Europa che vogliamo e che dovrà essere laica, ma profondamente tollerante verso tutti i credo religiosi, che sarà un luogo in cui la libertà d’opinione dell’uno sia difesa dall’avversario come non è ancora mai stato, in cui la giustizia sociale non possa essere mai svincolata dal concetto di libertà. Sono questi gli ideali di cui dobbiamo reinnamorarci, quelli di una comunità che solo attraverso l’ampiezza di una cultura includente e dilagante, una cultura epidemica che torni a esaltare il pensiero di ogni cittadino, può sbarrare le porte all’oscurantismo di un pensiero unico, di un pensiero a una sola direzione, che fa fuoco a sangue freddo su chi va nella direzione ostinata e contraria, considerandolo un eretico invece che un poeta.
Siamo noi che dobbiamo esigere con forza che nessuna sottomissione avvenga. Siamo noi che dobbiamo superare lo sfinimento e pretendere l’Europa che sogniamo, la cultura che sogniamo, la televisione che sogniamo, la scuola che sogniamo, la memoria che sogniamo – quella in cui non siano stati debellati uomini come Gramsci, come Tadeusz Borowski, come Céline, come Sandro Pertini, ossia quelli che ci hanno insegnato che la via facile non è mai quella buona. Nel breve corso di una vita non c’è tempo per lo sfinimento. Se ci fosse un peccato laico, sarebbe proprio questo. E la condanna la conosciamo. Per chi, invece, ancora la ignora, varrà la pena di comprarsi il libro di Houellebecq.
P.S.
A margine di un articolo che cita in più occasioni l’Islam, vorrei dire che nulla c’è di più odioso che dover confondere la religione e la politica. La mia personale idea dell’Islam è racchiusa in una vicenda di qualche mese fa. La madre di un ragazzo assassinato aveva, secondo la sharia, la possibilità di decidere se far impiccare o meno il killer di suo figlio. Quella donna si avvicinò all’uomo che aveva già la corda al collo, gli dette uno schiaffo, gli sfilò il cappio e se ne andò dando una lezione a tutti, e in primis alla baracconata vergognosa di un patibolo. Questo ha a che fare con la fede. L’idea che l’uomo possa redimersi, possa cambiare, e dunque dargliene possibilità. È l’insegnamento dell’Islam e del Vangelo. Tutto il resto, per chi usa certi termini, è eresia. Ma uno Stato ha il dovere di essere laico e tutto questo, con la legge e con la difesa della libertà che deve garantire una società, non c’entra nulla.
Gian Maria Tosatti
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati