Conversazioni d’arte. Laura Tansini e Tony Cragg
Ottavo appuntamento con le conversazioni di Laura Tansini. Questa volta in dialogo con Tony Cragg, dopo il passaggio di Jeff Koons, Agostino Bonalumi, Pierre Alechinsky, Mario Merz, Richard Serra, Jannis Kounellis e William Kentridge. Una conversazione realizzata in occasione della personale di Cragg al Macro di Roma.
Molti dei tuoi lavori li hai creati usando come materiale oggetti esistenti (in plastica, in vetro…). Che significato ha per te impiegare oggetti d’uso quotidiano per le tue opere?
Io non faccio differenza tra i materiali naturali e gli oggetti prodotti dall’uomo. Per me hanno lo stesso valore: sia gli uni che gli altri sono semplicemente materiali. Lo scultore usa i materiali come estensione di sé; tenta di far esprimere pensieri ed emozioni a materiali altrimenti inerti: è un tentativo non solo di proiettare l’intelligenza nella materia, ma di usare la materia per pensare.
Uso oggetti perché desidero andare oltre la loro ragione di esistere, che è una ragione utilitaristica, e spingere la loro realtà oltre questo limite. Ritengo questo un punto molto importante nella nostra cultura: tutto quanto la società produce è fatto a fini utilitaristici e ciò banalizza la nostra realtà. Non dobbiamo permettere che la nostra realtà sia limitata a forme utilitaristiche. Anche se è un’attività marginale, la scultura è molto importante perché può creare nuove forme che possono allargare il nostro “linguaggio visuale” e quindi sviluppare la fantasia e i sogni e aiutarci a uscire dalla piatta realtà che ci circonda.
Questa idea di estensione nello spazio con i materiali è la mia idea di scultura. È il potenziale della scultura oggi.
Nei tuoi lavori hai sperimentato materiali, oggetti, forme diverse. Alla ricerca di cosa?
Alla ricerca del nuovo, di forme nuove per arricchire il linguaggio della scultura, per allargare la nostra realtà. I miei primi lavori del 1969-70 (Line of Boxes, Stacks of Bricks, Stacks) erano molto influenzati dall’Arte Povera e da tutta una generazione di artisti. Pur con interessi diversi, abbiamo cominciato a usare i materiali più vari, spesso in modo molto semplice. Io assemblavo quello che trovavo per strada senza usare nessun “metodo costruttivo”. L’idea era di fare opere “naturali” come lo è un gesto; facevo quello che potevo fare con ciò che avevo trovato, senza usare collanti o viti o altro per tenere insieme i pezzi: fare l’opera era una performance.
I miei primi lavori con la plastica sono invece degli Anni Ottanta.
Come ti procuravi i pezzi di plastica?
Li trovavo sulla spiaggia.
Assemblando i pezzi di plastica componevi delle immagini: persone, giocattoli, bottiglie… Che significato hanno?
Tutti i miei lavori con la plastica rappresentano immagini. Nella serie Container, nelle serie Cow-boy, Policeman, Robot, Japanese Bottle e in molte altre l’immagine che compongo con i pezzi di plastica rappresenta l’oggetto che uso; spesso ne mettevo uno sul pavimento di fronte all’installazione sul muro. Nella serie Autoritratto rappresento me stesso in bilico su una sedia mentre attacco i pezzi al muro o mentre guardo il mio lavoro, come in Britain Seen from the North.
In seguito hai usato materiali più tradizionali per realizzare le tue forme: legno, marmo e anche bronzo. Come è avvenuto questo cambiamento?
Per anni ho fatto mostre realizzando il lavoro direttamente in galleria; non avevo uno studio. Era tutto molto eccitante, mi dava la possibilità di viaggiare e vivere situazioni diverse, ma era anche una tensione snervante, una situazione quasi faustiana. Dopo quattro o cinque anni di questa vita mi sono reso conto che dovevo cambiare: non aveva più senso continuare nella stessa direzione. Così ho deciso di avere uno studio dove lavorare, continuare una ricerca non più limitata ai materiali ma anche sulla forma. Assumermi altre responsabilità.
Nei tuoi lavori è evidente il piacere di modellare…
Sì, mi piace modellare. Nei primi Anni Ottanta gli artisti avevano smesso di modellare, di fare il lavoro: preparavano un progetto o solo un disegno, poi lo mandavano in fonderia, dove qualcun altro avrebbe realizzato l’opera. Anch’io ho fatto così la prima volta: ho fatto due piccoli modelli e li ho mandati in fonderia. Quando ho avuto i lavori mi sono accorto che non mi dicevano nulla, li sentivo estranei, anzi non mi procuravano alcuna emozione. Mi sono così reso conto che avevo bisogno di partecipare a tutte le fasi del lavoro, dall’idea alla realizzazione finale. Non sono il tipo che prende un paio di decisioni – la forma, la misura, il materiale – e poi manda il progetto affinché sia fatto da altri. Ho bisogno di passare attraverso centinaia, forse migliaia di decisioni, di passaggi dal modello all’opera di grandi dimensioni e magari tornare indietro, cambiare, modificare la prima idea, fino a quando non trovo quello che sto cercando. Questo è il modo di fare scultura per me.
Quando si è giovani, non si sa come fare le cose ma si è pieni di energia, di aggressività, si vuole fare grandi gesti; ma ora ho imparato tante cose, ora ho trovato un “metodo” che è il mio e che mi permette di realizzare opere che non mi sarei mai sognato di fare prima. Non cerco scorciatoie e facili soluzioni. Al contrario, voglio, ho bisogno di creare una infinita possibilità di soluzioni; parto da un piccolo modello di polistirolo, legno, creta – comunque un materiale “facile” da modellare – e vado avanti provando, cambiando, modificando e ricominciando fino a quando non trovo quella che secondo me è la soluzione giusta, quello che sto cercando.
Negli Anni Ottanta hai anche realizzato dei lavori usando sedie, tavoli. Tu usi molti oggetti “fatti” ma non mi sembra che i tuoi lavori abbiano nulla in comune con i ready made.
Il nostro mondo, la nostra realtà visuale è costituita dagli oggetti che usiamo; quello che io ho tentato di fare usandoli è cambiarli per creare nuove costellazioni, una realtà visuale diversa. Naturalmente i miei lavori non hanno nulla a che fare con i ready made; anzi, sfido i ready made. Quello di Duchamp è stato un freddo gesto intellettuale, che a suo modo e a quel tempo ha avuto la sua importanza, ma oggi non ha più ragione di essere. Il mio uso degli oggetti ha un altro significato: cambiare la loro realtà per creare un nuovo linguaggio.
Da dove ti viene questa necessità di modificare la realtà?
Io non direi “modificare la realtà” ma arricchire il linguaggio della realtà. La società produce oggetti che divengono un’estensione di noi stessi, perché stiamo meglio con indosso una camicia, seduti su una sedia, in una casa, o guidando una macchina su una strada. Ma tutte queste estensioni sono utilitaristiche. La loro realtà, la loro estetica è decisa a fini utilitaristici. Nella nostra società tutto ha un fine utilitaristico. Anche il tentativo di portare l’arte verso il design industriale e verso l’architettura è un modo per controllare l’arte, perché nelle nostre stanze, nelle nostre strade non ci sia nulla di veramente nuovo, di “strano”. È un modo per limitare il pensiero, la creatività.
In un mondo dove ogni cosa è limitata dalla sua destinazione utilitaristica, è l’artista che deve creare nuovi linguaggi, nuove forme, un vocabolario più ricco che aiuti a pensare.
Quindi il “filo rosso” della tua ricerca è il linguaggio, la nostra identità e il rapporto con la realtà che ci circonda?
Il mio interesse primario è arricchire il linguaggio visivo creando immagini nuove, oggetti che non esistono nel mondo naturale o funzionale; forme e oggetti che riflettano e trasmettano informazioni sul nostro mondo e la nostra esistenza. Naturalmente le mie non sono dichiarazioni, ma solo suggerimenti per uscire da un mondo di celluloide fatto di paesaggi video, di vita naturale virtuale, di guerre viste in fotografia, di famiglie formato polaroid, di politica “offset”: sempre e solo informazione e immagini di seconda mano. La nostra realtà non va oltre le immagini volute dal marketing. Il mio lavoro nasce dalla necessità di conoscere di più oggettivamente e soggettivamente, di andare oltre gli stereotipi; è importante avere esperienze di prima mano -vedere, toccare, annusare, ascoltare – incontrare nuovi oggetti e nuove immagini. L’arte serve a questo. Il mio interesse è non solo di sopravvivenza; ho anche la necessità di ragionare, di pensare, di sognare, di fantasticare.
Quindi creare nuovi linguaggi, nuove forme per comunicare è un modo per stimolare, arricchire il pensiero?
Esattamente! Perché la libertà, la vera libertà non è scalare montagne inviolate o scoprire nuovi continenti o nuovi pianeti: la vera libertà è nella nostra testa e l’unico modo per esercitare la libertà è avere un linguaggio, un vocabolario che permetta di immaginare e comunicare nuove cose, di fantasticare, di avere nuove idee. Questo è quello che mi interessa; forse è una libertà modesta, ma è l’unica che abbiamo.
Che rapporto hai con la scultura in esterno, nel paesaggio o in uno spazio urbano?
A me interessa creare sculture che possono sopravvivere all’esterno, ma non sono interessato al luogo nel quale saranno collocate. Non sono interessato né al paesaggio né all’ambiente urbano: quello che mi interessa è creare sculture secondo le mie idee; farle nel mio studio, in fonderia, e avere la certezza che, quando escono, siano in condizioni perfette per resistere all’aperto. Dove vadano nel mondo è una cosa che poco mi interessa; non mi interessa creare opere che siano referenziali alle architetture o ai paesaggi.
Quindi non è il luogo che ti ispira.
No, i luoghi cambiano, le sculture restano. Quello che mi interessa è che quando una scultura – qualsiasi tipo di scultura – è collocata all’esterno, in una situazione pubblica, diventa importante perché crea delle reazioni; alcune volte positive, altre negative, spesso aggressive, perché le persone si trovano di fronte qualcosa che è “diverso” dalla tediosa realtà a cui sono abituati. Questo mi interessa: provocare delle reazioni, cambiare la realtà, inserire nuovi elementi nel nostro linguaggio visuale, far pensare…
Laura Tansini
Estratto da un articolo pubblicato su “ArteIn” numero 88 (2003-2004)
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