Alessandro Facente e i neologismi. A New York nasce Curaticism
Prosegue l’esperienza newyorchese di Alessandro Facente. E ora è partito il ciclo “The GAM” alla NARS Foundation. Il tutto nell’ambito di quello che definisce “curaticism”, crasi fra curatela e critica. Come e perché ce lo siamo fatti spiegare da lui stesso.
Hai definito Curaticism | The GAM #1 una “spoken words exhibition”: cosa vuol dire?
È una “mostra di parole parlate”: è costruita come una vera e propria mostra ma si apre al pubblico sotto forma di talk. Ha un concept, una visione, un obiettivo e un gruppo di artisti messi insieme secondo le coerenti connessioni che uno specifico sguardo curatoriale tesse tra le loro pratiche in progress piuttosto che tra le opere concluse. L’idea di fondo è mostrare il processo attraverso cui le idee degli artisti nascono e solidificano, raccontando ad esempio come il loro lavoro si interseca con le vicende della loro vita e con le realtà che li circondano, quelle che si lasciano alle spalle e che raggiungono con i loro spostamenti.
Ad essere esposti sono quindi tutti quei pensieri, preoccupazioni, cambiamenti, opportunità, ambizioni, incontri visivi, umani, dettagli di ogni genere, più o meno cruciali, che germinano intorno a una o un gruppo di opere in costruzione. Non è un processo semplice e a volte mi accorgo che gli artisti compiono uno sforzo sovrumano per darmi dialetticamente risposte che di solito risolvono visivamente. Tuttavia credo che operare una forzatura di questo genere sia fondamentale per mappare i concetti e visioni che gli artisti del nostro tempo colgono dal nostro tempo, e responsabilizzare il curatore stesso a tracciarne una narrativa che altrimenti andrebbe persa.
Il progetto è finanziato dalla NARS Foundation di New York: ci racconti cos’è?
Alla NARS Foundation ho inaugurato Curaticism | The Gam. Un unico titolo, ma due termini che rivelano due progetti: uno a lungo termine, Curaticism, e uno temporaneo, The Gam. Curaticism interesserà parte della mia attività curatoriale futura, assumerà varie forme e coinvolgerà partner e artisti di volta in volta diversi. The Gam invece è il primo capitolo di Curaticism specificatamente pensato per la NARS Foundation, i cui “sottoparagrafi” si svilupperanno per tutto il 2015 sotto forma di Spoken Words Exhibitions.
Su The Gam ti ho già risposto nella domanda precedente, dunque concentriamoci su Curaticism. È un termine che uso per identificare un’attitudine alla curatela, se vogliamo un “brand”, il cui prodotto è il risultato dell’attività critica di un curatore “embedded” che costruisce e discute insieme all’artista la filologia ongoing della sua opera. A Curaticism arrivo dopo una serie di progetti che ho curato a partire dal 2006/2007 tra Roma, Napoli, Milano, Novara, Marocco e New York. All’interno di essi ho proposto un “clima curatoriale” su cui potesse esprimersi un dialogo critico con l’artista, diventando per esso un testimone con cui discutere le ragioni dell’opera in costruzione è il suo rapporto con la ricerca in generale. Curaticism è quindi una parola di cui avevo bisogno anche per fare ordine nella mia di produzione, e qui a New York non faccio altro che proseguire il mio percorso ma con più coscienza progettuale e conoscenza di me stesso.
In pratica cosa fai alla NARS Foundation?
Alla NARS incontro costantemente gli artisti in residenza, seguo l’attività che sviluppano dentro e fuori gli studi, facendo un report scritto che viene discusso durante le Spoken Words Exhibitions. Ad esempio, con la pittrice irlandese Lisa O’Donnel ho passato un’intera giornata nell’archivio dell’American Irish Historical Society, un centro nazionale di borse di studio e di cultura irlandese fondato nel 1897. Una volta lì, ho scoperto che spulciava tutti i numeri della rivista Irish Echo – settimanale di base a New York che dal 1928 scrive la cronaca negli immigrati irlandesi negli Usa – per prendere quelle immagini che popolano alcuni dettagli del suo immaginario pittorico, e solo quando ho visto tutte quegli originali in bianco e nero ho capito perché nei suoi lavori il colore è così vivo. La sua predominanza sembra avere a che fare con la restituzione nel tempo attuale di quelle esperienze del passato bloccate nel bianco e nero di un giornale.
Richiamando quindi la sua condizione di irlandese negli Usa, ho voluto che si ponesse l’interrogativo universale che è alla base di questa sua posizione specifica, ovvero perché ci sforziamo a cercare le nostre radici. Per farlo sono partito dal suo sforzo cromatico e il gap che c’è tra i suoi lavori e le foto originali, lo stesso che esiste tra lei e la generazione passata, per giungere infine a capire, con gli altri artisti invitati, in che modo la generazione di artisti contemporanei sublimano visivamente le loro di radici. Raccogliere i dettagli della pratica degli artisti fa parte dunque di quella mia pratica quotidiana alla NARS da cui tiro fuori i vari punti che poi propongo durante le sessioni pubbliche.
Oltre a una serie di artisti, nella mostra è coinvolta anche una curatrice: come sono i rapporti fra di voi? Cosa fa un curatore quando invita in una mostra un curatore? Semplicemente collaborate al progetto o la questione è più complessa?
Ho conosciuto Chelsea Haines nel 2010 quando sono venuto la prima volta a New York. Poi è stata mia partner durante le selezioni del Premio Furla. Le discussioni nate in quel momento mi hanno convinto a chiamarla anche alla NARS. Mi intriga la sua scrittura e la capacità di trovare le varie connessioni che esistono tra la produzione dell’artista e fatti politici, sociali fortemente attuali. Questo suo approccio sembra assumere, dal mio punto di vista, una postura “embedded”, perché si incorpora nell’opera per riempirla di una sua visione teorica.
Quello che dunque un curatore fa quando un altro curatore lo invita a una mostra – per lo meno quello che accade nel mio progetto – è prestare la sua pratica, tecniche e metodologie a servizio di materiale visivo e argomentativo che fornisco io, dando a questo materiale l’opportunità di una visione più esterna rispetto alla mia più interna. Invitare un collega significa quindi stimolare un dibattito sull’arte della nostra generazione che sia il più aperto possibile. La questione è dunque più complessa, non è qualcosa solo per me, ma per la critica d’arte e la curatela in generale. È chiaro che il progetto porta la mia firma ed è parte della mia produzione indipendente, ma qui si tratta di scrivere ambiziosamente la storia contemporanea di queste discipline e per farlo ho bisogno di co-autori con cui incrociare le visioni e tracciare i vari capitoli e paragrafi.
Il tema è il “dislocamento”. Spiegaci.
Quando si è in studio mi capita di ascoltare vicende personali che hanno avuto un’influenza sostanziale nella produzione dell’artista. Se a raccontarlo sono artisti che alle spalle hanno lasciato il luogo di origine, il lavoro si arricchisce di dettagli che ne influenzano l’evoluzione futura. Allo stesso tempo, l’impatto che il lavoro riceve nel luogo in cui si sposta, stimola anche una domanda sulla capacità del lavoro stesso di arricchire il nuovo scenario. In una circostanza del genere, gli artisti sono stimolati a parlare dell’evoluzione dell’opera sulla base di un paragone. Ci si affida, insomma, a una “differenza” per raccontare una “coerenza”. Nel caso di Curaticism | The Gam si cerca quindi che la “coerenza” di una geografia particolare venga studiata in luogo di un’altra geografia ancora, e l’intersezione di luoghi e tempi dà lo spunto per testare un aspetto in particolare del ruolo dell’artista, quello di incubatore di informazioni distanti.
Gli studi della NARS sono stati di grande ispirazione. Affacciano sulla costa est di Brooklyn, nell’area di Sunset Park, e la vista mozzafiato proietta gli artisti verso l’acqua. La loro prossimità al mare mi ha ricordato lo scenario che Melville ambienta alla Battery di Manhattan, quello dei “migliaia e migliaia di esseri mortali, appostati dappertutto come sentinelle, perduti in silenziose fantasticherie mentre fissano l’oceano”. In questa frase c’è tutto quello che c’è da sapere sul concetto di “dislocamento” e tutto si è collegato con grande naturalezza: la mia volontà di lavorare sulla narrazione di storie lontane che, sbarcando a New York con le parole di artisti, invitano lo spettatore a fissare il suo di sguardo laggiù.
Torniamo all’inizio. Curaticism è una crasi fra curatela e critica. A questo punto va da sé che ti si chieda un parere sulla scena contemporanea della curatela e della critica, soprattutto in Italia. Avrai letto l’articolo di Luca Beatrice su Il Giornale in cui dice che Cattelan, con la curatela della mostra a Torino, Shit and Die, ha mandato in pensione i curatori. Condividi? È necessario un ritorno a un impegno più “pensato”, come ha sostenuto anche Antonio Grulli sul nostro Osservatorio Curatori?
Ammesso che Beatrice stia realmente pensando che i curatori siano andati in pensione perché gli artisti curano mostre, allora in pensione io dichiaro la nostra capacità di saper immaginare la curatela nella caledoscopia delle sue infinite direzioni. Dal mio punto di vista gli artisti stanno generosamente contribuendo all’arricchimento della categoria curatoriale stessa, offrendoci altri argomenti di cui parlare. Negli ultimi anni la “curatela dei curatori” ha prodotto invece un egoistico discorso su stessi, con il solo obiettivo di un’auto-indagine, comportandosi come una disciplina che, ad esempio, ha limitato il suo ruolo di costruzione di teorie intorno all’opera degli artisti. Di positivo c’è però da dire che una grande letteratura su questo argomento ha permesso oggi di mapparne la sua storia.
Tuttavia, ho sempre sostenuto estremamente interessante vedere la figura dell’artista alla guida di un museo o di una biennale, come oggi Christian Jankowski chief curator di Manifesta 11. Non scordiamoci inoltre che Kassel è stata pensata da un artista, Arnold Bode. Parlare quindi di curatori in pensione è campanilistico e credo anche che non sia così attuale. C’è da aggiungere inoltre che gli artisti curano mostre con prospettiva visiva, lo fanno, insomma per declinare ulteriormente la loro ricerca e di certo non per rubare il lavoro a qualcuno. Quando a farlo è un curatore, ciò avviene – o dovrebbe – con prospettiva critica, un ingrediente che siamo solo noi curatori a dover mettere. Gli artisti non possono, non devono e soprattutto non vogliono. Alla fine ha davvero ragione Grulli quando propone un impegno più “pensato”, lontano anni luce dall’idea del curatore facilitatore o, come lui scrive, ”vaselina”.
Io però parlerei più di “impegno critico”. Se davvero vogliamo “riconquistare” il nostro ruolo, allora costruiamo teorie. Teorie sull’opera degli artisti del nostro tempo, italiani e della nostra generazione – non solo quelli del passato. C’è tanto lavoro da fare in Italia e gli artisti stanno producendo materie di cui dobbiamo parlare. Penso ad esempio all’idea di radicamento della figura dell’artista nella quotidianità che stanno sviluppando Angelo Bellobono con Atla(s)now sull’Atlas del Marocco e gli Appalachi Americani, Alessandro Bulgini con B.AR.L.U.I.G.I. prima e Decoro urbano di Barriera di Milano oggi tra i marciapiedi di Barriera a Torino e Gian Maria Tosatti con il progetto Devozioni tra il 2005 e il 2011 a Roma e Sette Stagioni dello Spirito in corso a Napoli. L’opera di questi artisti straordinari ha giocato un ruolo fondamentale nella vita ordinaria di queste comunità, recuperando i loro spazi urbani abbandonati e quartieri in declino, così come proiettato le ambizioni locali dei loro villaggi remoti verso un dibattito globale. Il frutto del loro lavoro può essere ricollegato a quella necessità di “umanizzazione” delle arti visive rispetto alla quale il mercato ha contribuito invece a impoverire e di cui oggi c’è davvero bisogno per riportare l’arte contemporanea nella vita reale. Loro stessi hanno ridisegnato il loro ruolo mischiandosi con le comunità e mai usandole come strumenti per costruire l’opera, al contrario è l’opera stessa a essere stata uno strumento in mano a esse.
Fenomeni di questo tipo ce ne sono un’infinità in Italia. Bisogna solo parlarne, è questo il nostro compito: farne teoria. Tutto il resto è, come dicevamo prima, solo campanilismo.
Da New York come vedi la nomina di Vincenzo Trione a curatore del Padiglione Italia? Troppo scollegato dal contemporaneo o invece una mossa proprio in direzione di una maggiore componente critica a scapito di quella meramente curatoriale?
Premetto che è impossibile avere un’opinione sulla nomina di un curatore se non si hanno davanti le opere scelte e i discorsi curatoriali tessuti intorno ad esse. Detto ciò, è chiaro che un’idea te la fai comunque. Mi sentirei di dire che è una nomina tendenzialmente più scollegata dal contemporaneo, rispetto invece a quella che avrebbero rappresentato i nomi usciti dalla shortlist.
Tuttavia, non mi sento di credere che una “componente critica” possa essere scollegata dal contemporaneo. Trione può usare queste capacità critiche per selezionare opere pazzesche e costruire una visione che ne sia all’altezza, mettendo a tacere tutte le critiche. È una chance. Io non me la farei sfuggire. È chiaro che, stando a ciò che ho letto, Trione non gode di grande fiducia e quest’ultima è fondamentale per avvicinare la comunità dell’arte al nuovo padiglione. Di questo bisogna tenerne conto ma è una responsabilità che io darei al Ministero per i beni culturali, che ancora una volta ha perso la chance per dialogare con la comunità dell’arte contemporanea italiana. Inoltre penso che l’edizione 2015 è quella in cui ci si aspettava delle scelte più coraggiose ed una selezione di artisti più snella. Trione porterà 12/13 artisti, una scelta che avrei evitato visto i precedenti padiglioni. Siamo un po’ stanchi di mercati affollati e spero che lo sia anche un po’ lui.
Marco Enrico Giacomelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati