Francesco Rosi, lo sguardo severo (e appassionato) di un cineasta
Cosa pensava Franceso Rosi del Neorealismo? Chi erano i suoi maestri? Che idea aveva del cinema e del suo rapporto con la società italiana? Un collage di interviste e un ricordo del maestro. Nel giorno della morte
A poche settimane dalla scomparsa di Virna Lisi, un altro gigante del cinema italiano se ne va. È morto oggi, 10 gennaio 2015, Francesco Rosi. 92 anni di talento robusto e schivo, di genialità e di misura, di potenza linguistica e concettuale. Un regista decisivo, cantore lucido della realtà, che dell’Italia ha esplorato le arterie più opache, sotterranee, resistenti, i conflitti e i chiaroscuri, e le dinamiche autentiche da cui la vita – quella del popolo e del potere, della società civile e della classe politica, dei criminali e dei combattenti, degli utopisti e dei meschini – si generava. Divenendo sistema, racconto, eredità, vincolo e speranza. Un cinema umano e spietato, a un tempo.
Dopo gli esordi al fianco di Luchino Visconti, maestro indiscusso da cui Rosi imparò il senso e i segreti del mestiere –La terra trema, Senso, Bellissima, Processo alla città, – collabora ad alcune pellicole importanti, come I vinti (1953) di Michelangelo Antonioni, e Proibito (1954), di Mario Monicelli. Nel 1956 gira con Vittorio Gassman Kean – Genio e sregolatezza e l’anno dopo inaugura, definitivamente, la su carriera di regista, ormai del tutto indipendente: esce così La sfida, suo primo lungometraggio, e nel 1959 I magliari, con l’immenso Alberto Sordi.
Ma la svolta, per Rosi, arriva col cinema d’inchiesta, che lo rese celebre e ne segnò stile e identità. Figlio di quel sentimento neorealista, che aveva cambiato le sorti del cinema italiano, precipitando attori, registi e spettatori nel cuore di un tempo presente e non più trascurabile, Rosi trova la sua dimensione migliore in quell’idea di sintesi tra narrazione e documentazione, tra indagine e ricostruzione, penetrando le maglie di un’attualità complessa e troppo spesso scomoda.
Gli anni Sessanta sono quelli di Salvatore Giuliano, racconto intenso e originale della vita del bandito siciliano, costruito attraverso sequenze di flashback non cronologici: si merita l’Orso d’Argento al Festival di Berlino e poi il Nastro d’Argento come miglior regista. Segue a ruota, nel 1963, Le Mani sulla Città, che affonda lo sguardo tra i mali della speculazione edilizia, a Napoli, e il vizio antico della corruzione politica. Con quel film, asciutto e disperato, vince il Leone d’Oro al Festival di Venezia e due candidature ai Nastri d’Argento, come miglior regista e miglior soggetto (scritto con Raffaele La Capria).
Allontanatosi dal genere d’inchiesta per un breve tratto, vi tornerà negli anni Settanta, con rinnovato vigore: vedono la luce Uomini contro – scritto con La Capria e Tonino Guerra -, un manifesto durissimo contro la guerra, contestato soprattutto dalle forze politiche di destra, che gli procurò una denuncia per vilipendio dell’esercito; Il caso Mattei, del 1971, premiato con la Palma d’Oro a Cannes, raffinata ricostruzione dell’assurda morte di Enrico Mattei, Presidente dell’ENI, colpito da un attentato aero nel ’62; Lucky Luciano, ancora un ritratto brutale della mafia, attraverso il volto di un uomo al centro di una cortina di misteri, e di nuovo una denuncia contro l’innesto tra poteri forti e perversioni malavitose. E poi tante pellicole, tutte di spessore: Cristo si è fermato a Eboli, Cadaveri eccellenti, Tre Fratelli, Cronaca di una morte annunciata, Dimenticare Palermo, La Tregua.
Un’urgenza di denuncia costante, la sua. Priva di retorica e di concessioni ideologiche, ma senza dimenticare la necessità del giudizio morale, di una scelta prospettica: osservare la trama complessa del corpo sociale, da vicino e dall’alto, e insieme prendere posizione. Scegliere da che parte stare e da dove orientare lo sguardo sui fatti. Senza omettere, senza alterare, senza indugiare sul superfluo, sul sentimentale, sul pretestuoso. L’esattezza delle cose e la presenza autoriale.
Nell’impresa di Rosi, come di molti grandi registi emersi negli anni ’50, c’erano l’equilibro e la forza di un cinema dei sopravvissuti, partorito dalle macerie della guerra e della dittatura, mentre si provava a rifare il Paese. Ripensandolo, sezionandolo, criticandolo, immaginandolo daccapo, tra lo sguardo severo, il rigore intellettuale e la passione.
“Raccontare la realtà significa anche fare delle scelte precise, delle scelte che possono costare un prezzo, come in effetti qualche volta m’è costato… Però, pur facendo dei film realistici, non ho mai tolto spazio alla speranza, non ho mai tolto spazio al sogno, perché il sogno è la materia della quale è impastato il cinema. Il cinema è racconto di vita, e se uno alla vita toglie il sogno…”.
“Il Neorealismo era il cinema dei fatti, del quotidiano, di quello che accadeva per le strade, di quello che accadeva nelle case delle persone; mentre invece prima non si faceva così. Si costruiva tutto, doveva tutto quadrare, dal punto di vista di un racconto che doveva obbedire a delle regole. E invece un certo punto c’è stata questa irruzione della vita sullo schermo, questo identificarsi non più con dei personaggi letterariamente interessanti, come il cinema aveva fatto fino ad allora, m con dei personaggi umanamente che comunicavano qualche cosa di è vero, anche di più incerto… l’incertezza, l’inquietudine che si è impadronita della spettatore, il quale su questo schermo, su questo lenzuolo bianco sul quale si agitavano delle ombre si riconosceva, nei sentimenti che venivano interpretati e che venivano espressi”.
“È tutta la realtà del nostro paese che invita ad essere avvicinata, approfondita, vissuta: il rapporto della politica con gli affari, con la memoria, con la finanza, con il potere…”
Helga Marsala
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