Timide contemplazioni. Pomeriggio d’amore con Pathosformel
Il festival Drodesera presenta una doppia veste dei Pathosformel: “Alcune primavere cadono d’inverno” e “An Afternoon Love”. Nei gesti tecnici di due differenti allenamenti sportivi, lo sguardo scopre inedite dimensioni sentimentali.
Quando, nel 2006, Pathosformel si affacciava per la prima volta sulla scena della sperimentazione teatrale italiana, sembrava indirizzare in maniera definita le linee della propria ricerca artistica. Assumendo, sin dalla scelta del proprio nome, quel portato teorico-concettuale legato alla figura di Aby Warburg (con riferimento esplicito al rapporto che intercorre tra il pathos e la ripetitività di canoni atti alla sua manifestazione: le pathosformeln, appunto), il gruppo si interrogava sulle qualità del corpo performativo, alterando – o addirittura azzerando – la sua presenza scenica. Un corpo, quello indagato dalla compagnia, che abdicava allo spazio scenico solo per essere recuperato o ri-visualizzato attraverso supporti macchinici.
Messa da parte l’estetica del post-organico, sottraendo definitivamente il corpo allo sguardo dello spettatore, Pathosformel sembrava ricercare una sua nuova organicità. Il vuoto, creato dalla non-presenza del corpo attoriale/performativo, era continuamente sostituito da forme (linee fluorescenti, ossa, quadrati dai colori sanguigni) capaci non solo di restituirne il ruolo scenico, ma anche di rievocarne la portata carnale ed emozionale (pathos), quell’umanità che l’uso e l’abuso della forma-corpo nella scena artistica del Novecento – anche ai fini di una sua disintegrazione – aveva definitivamente cancellato.
Il primo scarto all’interno di questo percorso di ricerca era avvenuto con La prima periferia (2010), spettacolo attraverso il quale Pathosformel concludeva un percorso di studio sul gesto portato avanti attraverso una serie di laboratori svoltisi in Italia. Per la prima volta il gruppo mostrava sulla scena dei “corpi umani” pur affiancandoli ai propri congegni meccanici. Dei “carli” di metallo, costruiti per riprodurre tutto l’apparato locomotore umano, interagivano con i performer in una sorta di bunraku postatomico che vedeva la carnalità del gesto interamente spostata sulle giunture metalliche, sui bulloni e sulle valvole di cui erano dotate le creature artificiali.
Proprio partendo dalle atmosfere esplorate in questo penultimo lavoro e continuando a indagare il valore della presenza corporea sulla scena teatrale, Pathosformel sembra ora rimescolare totalmente le carte messe in gioco, ribaltare quelle regole compositive su cui si era basata la crescita artistica del gruppo.
Il segno di tale cambiamento lo si è potuto percepire assistendo ad Alcune primavere cadono d’inverno, spettacolo commissionato dal festival di musica elettronica Meet in Town, prodotto da Fies Factory One e nato dalla collaborazione con il gruppo musicale Port-Royal. Ridotta a una pedana quadrata, la scena vede un brakedancer (Stefano Leone) assorto in un regolare allenamento. Al suo fianco, una busta di plastica giace inerte, illuminata dalle bianche luci che appaiono sul fondo della scena. Se al lato destro della pedana il gruppo Port-Royal esegue dal vivo la propria partitura sonora, alla sinistra Pathosformel sembra controllare il movimento dell’oggetto inerte (la busta), attivando degli enormi ventilatori metallici che circondano la scena. Se pur raramente visibili, i ventilatori permangono come causa meccanica del movimento scenico, impulso vitale ma artificiale, macchina performante, come performanti erano le macchine sceniche presentate nei precedenti spettacoli. Eppure il vettore che direziona Alcune primavere cadono d’inverno va ricercato nel movimento a cui è sottoposta non solo la busta, ma anche il corpo del danzatore. La partitura fisica del brakedancer, simulante una giornata di allenamento, appare sulla scena teatrale come svuotata di ogni significato residuo. Ogni gesto del “performer” è fine al gesto stesso o, ancor meglio, al rapporto casuale che il gesto istaura con il movimento (altrettanto casuale) della busta. È la scatola teatrale e il controllo da essa esercitato sugli elementi presentati in scena a plasmare questo rapporto, a traslare i corpi – vivi e inerti – in forma.
Questo meccanismo (ancora abbozzato e dilatato in dimensioni troppo emozionali dalla musica di Port-Royal) è totalmente esplicito in An Afternoon Love, studio presentato durante il festival Drodesera. In uno spazio completamente vuoto, illuminato dalla luce fissa di un faro, un comune giocatore di basket (Joseph Kusendila) è impegnato in venti minuti di allenamento. Il corpo esposto alla vista dello spettatore non è semplice performer – né tantomeno icona portatrice di universi significativi – ma quello spazio-forma in cui è assorbita l’intera scena e in cui la relazione tra gli oggetti assume significato.
Assolutamente non casuali ma coreografati, i gesti compiuti durante l’allenamento si relazionano ancora una volta ai movimenti casuali degli oggetti posti in scena: il pallone, un asciugamano abbandonato per terra, una piccola radio. Eppure tale casualità è a sua volta controllata dalla scatola teatrale, una scatola che non si dà più come mero luogo fisico, ma come “tempo della visione”. È un processo dal riverbero duchampiano, quello attuato da Pathosformel: il gesto naturale dell’allenamento è trasportato all’interno della scena teatrale, è privato di ogni sua relazione significativa con l’universo di appartenenza, è firmato attraverso la sua manipolazione temporale (scrittura coreografica), è privato definitivamente di ogni sua funzione, ed è offerto, infine, allo sguardo dello spettatore. Il corpo-forma assorbe il tempo teatrale, mentre lo sguardo dello spettatore è sorpreso dalla necessità di contemplazione della forma esposta.
In questo tempo destinato alla contemplazione, ogni gesto mostra nuove qualità. La mano che accarezza il pallone, lo sguardo perso nel vuoto, la palla che rimbalza sul pavimento, le pieghe dell’asciugamano, i muscoli tesi dei polpacci, il piegarsi del braccio… Tutto, portato al massimo grado di corporeità e concretezza – dove ogni cosa è, non rappresenta – diviene faglia, taglio, spazio in cui articolare ogni dolce racconto d’amore.
Matteo Antonaci
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