Power Propaganda. Sulla strategia comunicativa dell’ISIS
Il rapido susseguirsi di eventi dei giorni scorsi ha fatto ripiombare nuovamente l’opinione pubblica all’immaginario-shock del terrorismo, tratteggiando quello che molti commentatori internazionali hanno già definito l’11 settembre europeo. Eppure, prima del massacro di Charlie Hebdo, altre rappresentazioni apparentemente atipiche s’insidiavano attraverso i media, scrivendo l’estetica della propaganda 2.0.
PROPAGANDA 1.0: AL-QAIDA
Il pubblico globale, ancora attonito a pochi giorni dalla strage nella redazione di Charlie Hebdo e la sparatoria di Montrouge, difficilmente riuscirà a trovare una conclusione altrettanto scioccante ma questa volta catartica, liberatoria, che soddisfi le legittime aspettative di finale trionfante tipica della narrazione bene-male che decenni di fiction ci ha inculcato ed educato visivamente.
Non fu così per il decennio di conflitti che seguirono gli attacchi al World Trade Center, (non) conclusasi nell’immaginario con l’uccisione di Osama Bin Laden nel raid di Abbottabad nel 2011 e la pubblicazione dapprima di immagini palesemente contraffatte del volto sfigurato del terrorista e successivamente di immagini che miravano all’esibizione di un corpo più realistico come prova finale del nemico sconfitto. Una pratica bellica però, consapevolmente o no, era il precipitato di secoli di cultura visiva che affonda le sue radici in esempi che spaziano dal Galata Morente alla rappresentazione dei corpi martoriati dei santi cristiani.
Cos’è cambiato quindi nel linguaggio espressivo della propaganda estremista e, di riflesso, nella rappresentazione e contrasto occidentale di tali fenomeni? Tanto per iniziare sul piano della comunicazione e nell’immaginario collettivo, il brand del grande antagonista sembra essere cambiato: se prima il nome attorno al quale si catalizzavano paure inconsce e razionali era Al-Qaida, ora è lo Stato Islamico, conosciuto con le abbreviazioni Isis o IS, ad aver conquistato rapidamente la scena mediatica. Tale primato è stato possibile attraverso un cambio radicale di estetica che dal post 11 settembre in poi aveva contraddistinto il “genere” delle rivendicazioni e della propaganda jhiadista: la serie di video che scandivano con cupo e monotono ritmo le esecuzioni di soldati e prigionieri, o i semplici proclami dei talebani, sono stati per dieci anni non soltanto dal punto di vista dei contenuti ma ancor più formalmente un’arma rivolta alla sofisticazione delle immagini occidentali. Video amatoriali, girati con telecamere digitali con immagini spesso fuori fuoco, in interni scialbi ed essenziali, talvolta nelle grotte dell’Afghanistan, come a voler sottolineare sul piano simbolico l’elemento radicale, arcaico e anti-imperialistico.
La scia di filmati che scandirono quel momento non solo riuscirono nel loro intento di disseminare terrore, ma in qualche modo s’insinuarono anche nelle rappresentazioni cinematografiche, nelle produzioni dapprima sperimentali e artistiche, poi in produzioni mainstream americane ed europee, creando un “gusto” che ancora oggi si può ritrovare in diversi formati.
PROPAGANDA 2.0: ISIS
Negli ultimi anni l’Isis ha aggiornato radicalmente questo repertorio, adottato nuove tecniche di rappresentazione e di comunicazione che sono il frutto di un utilizzo molto cosciente del linguaggio cinematografico, televisivo e persino videoludico al fine di diffondere adeguatamente il loro messaggio.
Al minimalismo radicale che ha contraddistinto il post 11 settembre, il salto di scala della nuova propaganda si è manifestata anche grazie alla straordinaria presenza dell’Isis sui social network: YouTube, Twitter, Instagram, Tumblr, oltre a veri e propri siti di recruiting. L’estetica di tutti questi contenuti è ben al di là dei “dogma movies” di Osama Bin Laden: basti pensare al caso di una clip caricata su YouTube realizzata montando scene dal videogame Grand Theft Auto, accompagnato da messaggi di chiamata alle armi come: “Quello che per voi è solo un gioco noi lo facciamo sul campo di battaglia!”.
È importante sottolineare come il materiale di propaganda realizzato in questi ultimi anni da IS sia contraddistinto da un linguaggio estremamente sofisticato e attento al fare proprio i generi televisivi occidentali, dai reality show ai reportage fino ai videoclip, estendendo il loro vocabolario espressivo e diversificando così la portata del messaggio. Va da sé, questo non a scapito dell’estetica shock propria del terrorismo: procedono su binari paralleli, ugualmente virulenti, i topos propri dell’estremismo islamico;basti pensare ai video che dalla fine della scorsa estate hanno iniziato a tratteggiare il reboot delle decapitazioni talebane, segnando la morte degli ostaggi, i giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff e degli operatori David Haines e Alan Henning.
ESTETICA DELLA DECAPITAZIONE
In questa ultima ondata di decollazioni qualcosa è cambiato dal modello originale: le immagini sono ad alta definizione, la regia non è più affidata ad una sola inquadratura statica e ciascuna di queste clip presenta un vero e proprio montaggio che dimostrano la volontà di modernizzare la comunicazione, creando un cortocircuito con i media più popolari internazionali. Abbiamo imparato a riconoscere come in un serial i (pochi) protagonisti di questi documenti, interpretati da ostaggi che, prima della loro tragica fine, erano costretti a recitare anatemi e confessioni contro i loro governi.
Abbiamo imparato come in un serial a riconoscere i ruoli dei personaggi grazie ad oggetti di scena e costumi. La tuta arancione tipica di Guantanamo (ma, altresì importante, anche leitmotiv del serial di successo Orange Is The New Black) ha caratterizzato efficacemente ciascun ostaggio in contrapposizione con il suo aguzzino mascherato, completamente vestito di nero e ribattezzato dai media “Jihadi-John” in quanto occidentale convertito alla causa.
Se confrontate con alcune precedenti famose esecuzioni, come quella di Nick Berg, queste nuove decapitazioni hanno aumentato il loro potenziale seduttivo e incrementato grazie all’effetto viral la loro persistenza nell’etere. Così, se da un lato la prima “stagione” di decollazioni dei talebani appariva come una documento crudo, reale, estremo, ma in qualche modo “raro” a delimitare la periferia del visivo, l’iper-realismo dei video dello Stato Islamico sono oggetti estremamente prossimi, talvolta combacianti formalmente con prodotti di intrattenimento come videoclip, film, serial, videogame che negli ultimi quindici anni hanno lavorato sul piano della fiction con il racconto dell’estremo utilizzando immagini che dovrebbero atterrire, ma che proprio in quella terribilità celano una provocatoria bellezza. Questa analogia sul piano politico e propagandistico rappresenta insieme il successo e il limite dell’immaginario shock di queste uccisioni dell’IS: infatti la valorizzazione “estetica” li fa assomigliare fin troppo ad oggetti artistici e in tal senso un buon montaggio e una buona immagine sposta l’attenzione dalla gravità del soggetto rappresentato al medium in sé, invalidandone parzialmente il carattere documentario.
“Sappiamo che è vero. Ma, viene da chiedersi, quanto durerà? Lo shock ha un limite temporale? […] Lo shock può diventare familiare. Lo shock può esaurirsi. E anche se ciò non avviene, resta pur sempre la possibilità di non guardare”, scriveva Susan Sontag a proposito delle foto che documentano le atrocità delle guerre. L’assuefazione a tali visioni non è solo un rischio ma è anzi la condizione ormai consueta che segue immediatamente il boom di ogni fenomeno virale che ribalza nei social media, peraltro senza creare una reale gerarchia (estetica, etica, politica, morale) dei contenuti: basti pensare a come lo shock delle esecuzioni filmate dell’Isis fu immediatamente sedato lo scorso agosto dalla deflagrazione mediatica dell’Ice Bucket Challenge, forse il colpo meglio assestato dagli Stati Uniti e i suoi alleati sul piano del conflitto delle immagini contro la propaganda Jihadista, e di conseguenza con un preciso precipitato transpolitico, militare e per questo non neutrale o filantropico come fu promosso.
Se le immagini strazianti delle decapitazioni o delle uccisioni degli scorsi giorni a Parigi hanno fatto ricircolare il repertorio emotivo nei confronti della violenza delle immagini, andrebbe invece evitata ogni retorica concentrandoci sulla vera questione, che è appunto il “sublime” generato da tali rappresentazioni attraverso i media. Come già scriveva Jean Baudrillard nel 1990: “La nostra violenza, quella prodotta dall’ipermodernità, è il terrore. È una violenza simulacro: ben più che dalla passione, esso sorge dallo schermo, è potenza del vuoto dello schermo, grazie al buco che esso apre nell’universo mentale.[…] Vi è ovunque una precessione dei media sulla violenza terrorista. È questo che ne fa una forma specificamente moderna –ben più moderna delle cause ‘oggettive’ che le si vogliono attribuire: politiche, sociologiche, psicologiche – nessuna di esse è all’altezza dell’evento”.
IL VIDEO DI JOHN CANTLIE
Se possibile, c’è qualcosa di ancor più innovativo nella propaganda recente dell’ISIS, talmente preciso e puntuale da far sorgere alcuni interrogativi sul metodo di lavoro che sottende alla realizzazione dei vari video propagandistici; viene da chiedersi se esistono strumenti di marketing analoghi a quelli di Hollywood o dei grandi network televisivi, con focus group per monitorare l’eventuale saturazione del registro scioccante e alternarlo, diversificando i vari format.
A tal proposito, il caso del recentissimo video (pubblicato pochi giorni prima dei fatti di Parigi) con John Cantlie, il fotografo e corrispondente britannico sequestrato dall’Isis, rappresenta uno dei documenti più sconvolgenti di tutto l’intero repertorio prodotto in quindici anni.
Il breve video della durata di 8 minuti s’intitola Live From Mosul ed è stato caricato come i precedenti direttamente su YouTube. La tragica vicenda di John Cantlie è purtroppo ben nota: finito nelle mani degli Jihadisti e utilizzato per la sua professionalità come mezzobusto, eterodiretto dai suoi carcerieri per perpetrare il tragico copione secondo il quale l’ostaggio si fa portavoce della causa del suo rapitore. Live From Mosul va ben oltre: John Cantlie non veste più la consueta tuta arancione ma questa volte è in abiti civili, fa il suo lavoro di report con tutta la professionalità di cui è capace, racconta sequenza per sequenza la città irachena di Mosul (in mano all’Isis) e, avvalendosi del montaggio del reportage, perfetto in ogni sua componente, racconta la vita di tutti i giorni, percorre le strade del mercato dove si prodiga nel raccontare la normalità, l’immagine edificante di un mondo povero ma civile. Poi percorre in moto le strade del centro di notte, pieno di luce, spiega quanto la disinformazione occidentale abbia deformato la realtà diffondendo l’idea di una città sotto assedio.
Cantlie contrappone un’altra versione, dove, pescando nel vocabolario emotivo, c’è la visita in ospedale, con i bambini feriti e traumatizzati dagli attacchi dei droni, e proprio contro un drone che vola alto nei cieli sopra Mosul il report inscena anche una sorta di pantomima. In Live From Mosul c’è tutto: nella sua forma mimetica ci sono tutti i registri dei format occidentali che ormai permeano i palinsesti quotidiani, dove il reporter (meglio se un cuoco) “scopre” attraverso gli usi e i costumi la bellezza dei paesi extra-occidentali. L’elemento scioccante è quindi la normalità, che solo apparentemente sembra in contraddizione con tutto il display del terrore, quando invece le due espressioni s’implicano a vicenda, completandosi.
Difficile prevedere come l’Occidente e soprattutto l’America risponderanno sul piano delle immagini a queste operazioni video così incisive. Sul grande schermo intanto un paio di titoli in particolare, come Exodus di Ridley Scott (che esce proprio oggi, 14 gennaio, nelle sale italiane) e American Sniper di Clint Eastwood, da un lato sembrano ricorrere agli strumenti classici dell’immaginario hollywoodiano (con il suo massimalismo da una parte e con la biografia greve a misura d’eroe dall’altra) fornendo però spunti ambigui e lasciando aperte possibili interpretazioni. Christian Bale, a proposito della sua interpretazione in Exodus, ha definito Mosè “il primo Jihadista della storia” e peraltro sappiamo come i film di Scott, o altre grandi rappresentazioni ataviche di conflitti, siano state materiale fortemente utilizzato nei vari montaggi dei video di propaganda dell’ISIS. Nel caso di American Sniper , l’intero film è un memoriale cupo, coattivo sulle gesta eroiche del più talentuoso cecchino della storia americana, che dall’inizio alla fine non mette in discussione la divisione manichea tra bene e male, e il primato assoluto del modello americano e del liberismo democratico.
Pochi giorni fa Slavoj Zizek pubblicava una sua riflessione dopo il massacro a Charlie Hebdo, modellando la chiusura del suo articolo su una famosa frase di Max Horkheimer “Coloro che non vogliono criticare il capitalismo dovrebbero tacere a proposito del fascismo”, e di conseguenza il filosofo sloveno aggiunge: “Coloro che non vogliono parlare in termini critici di democrazia liberale dovrebbero anche tacere rispetto al fondamentalismo religioso”.
Riccardo Conti
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