I futures e la natura del futuro attuale
Cosa c'entra il futuro con i futures? Poco, forse niente. Uno è una porta aperta su mille possibilità eventuali, da modellare con ogni gesto e parola. Gli altri sono un corridoio obbligato, il tentativo di ridurre al minimo quelle possibilità, e di ostacolare chiunque e qualunque cosa provi ad aprire un varco diverso da quello programmato. E nell'arte? Sta succedendo esattamente così.
What’s the problem with focusing on the long run? Part of the answer – although arguably the least important part – is that the distant future is highly uncertain (surprise!) and that long-run fiscal projections should be seen mainly as an especially boring genre of science fiction. […] Influential people need to stop using the future as an excuse for inaction. The clear and present danger is mass unemployment, and we should deal with it, now
Paul Krugman, Fight the Future, “New York Times”, 17 giugno 2013
Il sistema-mondo dell’arte contemporanea (e, più in generale, il sistema-mondo della cultura contemporanea) appare sempre più strutturato secondo lo schema concettuale – e ideologico – dei futures. Alla previsione del futuro, infatti, subentra la “predeterminazione” di un futuro programmato sulla base delle caratteristiche, dei valori, delle esigenze presenti. Futuro come programma, e non come progetto. La sostanziale “disumanità” di una scelta di questo tipo è qualcosa che naturalmente sopravanza il territorio della speculazione finanziaria (tanto più, quello del mercato artistico). Che esonda, che esorbita – forse anche al di là delle intenzioni iniziali dei programmatori e dei controllori. È chiaro che questa mentalità ha infettato la capacità stessa di immaginare, articolare e dunque di costruire il futuro. Persino, a livello sia politico che letterario, di raccontarlo.
Ora, esiste una contraddizione enorme e insormontabile tra l’arte come produzione culturale, creativa e immaginativa contemporanea (come produzione “vivente”) e un tipo di programmazione che richiede come sua precondizione lo “stare mortale” di cose, opere, individui, idee. Il futuro non è più qualcosa che per definizione non-esiste (“highly uncertain”), ma è qualcosa di predefinito. Il futuro è diventato così un presente, identico a quello attuale nelle sue condizioni di base e nei suoi presupposti, che di volta in volta si incarna, si invera nel presente: un presente che “sta” in un’altra zona temporale, e che burocraticamente accade. Un futuro come tempo che si fonda sul medesimo sistema di valori e di convenzioni che regola il presente, e che non se ne discosta invece radicalmente. La differenza rimane una differenza, per così dire, “geografica”: una distanza tra qui e lì, che si accorcia sempre più fino ad annullarsi e a svanire, più che una differenza irriducibile, inconciliabile e incommensurabile di identità e di modelli. Il futuro non è un tempo ulteriore ma semplicemente un tempo “che-sta-dopo”, che si situa dopo (e questo dopo si avvicina sempre più a noi per mostrarci il suo volto grigio e smorto…).
I controllori sono in questo modo chiamati a convalidare la correttezza dell’intero processo: il futuro è divenuto una procedura. Si tratta di mera amministrazione del presente, e di un’estensione di questa amministrazione nel futuro. È chiaro dunque che all’interno di questa procedura, arte intelligenza cultura immaginazione critica non sono che ostacoli, intralci, orpelli inservibili. Ciò che però è dichiarato inservibile (cioè: che, letteralmente, “non serve” a espletare la pratica, a oliare il meccanismo, a far andare la macchina per il verso giusto) potrebbe rivelarsi a sua volta – e non sarebbe affatto una novità – dannoso per il processo stesso. È il motivo per cui le operazioni artistiche e culturali sono state ridotte in larghissima parte a decorazioni, tinte qui e lì di esotismo e di elementi identitari e di rivendicazioni nostalgiche: perché ciò che si vuole è annullare, ridicolizzare, esorcizzare il potenziale trasformativo degli oggetti culturali. La loro capacità latente di intervenire nel tessuto della realtà e delle relazioni umane, per illuminarli e modificarli.
L’immaginario non discende dalle condizioni pratiche che caratterizzano la nostra esistenza quotidiana: è piuttosto vero il contrario. Il controllo sociale, il gatekeeping, la conservazione dei rapporti di forza e delle strutture di potere si reggono innanzitutto, e principalmente, sulle idee che agiscono i cervelli delle persone. Sulla qualità, sulla temperatura di queste idee – che modellano i comportamenti, e preesistono ad essi. L’arte ha scelto da qualche tempo – diciamo da un trentennio circa – di fornire giustificazioni (di ordine estetico?) all’ideologia che innerva l’Occidente; di convalidare e supportare questa ideologia che è un sistema prima di tutto morale. Questa arte verrà ricordata, con le dovute eccezioni, per questo: per l’accettazione incondizionata.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #22
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