Il gigante e la bambina. Paola Angelini, sette giorni al cospetto di Tiziano
Una giovane pittrice e il suo viaggio nella pittura. Paola Angelini resta chiusa sette giorni nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia, studiando una tela di Tiziano e reinventandole, in cerca di un segno nuovo. Una pratica - quella del disegno e della pittura da vero, tra le sale dei musei - ormai desueta e qui recuperata in chiave contemporanea...
Chissà da quanti anni, forse decenni, ai custodi delle Gallerie dell’Accademia non capitava di vedere un artista sostare per ore dinanzi ai capolavori del rinascimento e del barocco, conservati tra le sale del museo veneziano. Un tempo accadeva regolarmente. Gli artisti, con matite e tavolozze, trascorrevano intere giornate a contemplare dipinti e sculture, studiandone i segreti. Roba che oggi suona come terribilmente retrò.
Succede però che una giovane pittrice di talento, a un certo punto, si metta in testa di confrontarsi con uno dei maestri del ‘500 veneto, un gigante assoluto che intrecciò mistica e sensualità del colore: Tiziano Vecellio.
Paola Angelini, trentaduenne originaria di San Benedetto del Tronto, ha giocato il suo match dieci ore al giorno, per sette di giorni di fila, senza sosta. Ha affrontato il gigante, in solitudine, facendo quello che nessuno usa fare più: lei e lui, divisi da cinque secoli di storia, a immaginare un dialogo. E così farsi guidare, cercare una direzione, uscirne a pezzi per ritrovarsi altrove.
“Non so da quanto tempo non arrivava qualcuno a chiedermi di poter entrare qui per lavorare dal vero. Eppure il museo, secoli fa, era nato per questo…”. Sorpreso, il direttore delle Gallerie, Giulio Manieri Elia, il consenso a Paola lo ha dato volentieri, dischiudendole il radioso arsenale custudito dall’antica istituzione.
Armata di colori, solventi, pennelli e cavalletto, Paola ha trasferito lì il suo atelier e si è piazzata di fronte ad un immenso Tiziano: La pietà del 1576, opera della maturità in cui si coglie quell’incredibile rarefazione pulviscolare, quella libertà compositiva, quel dinamismo pre-manierista che suggellarono la lunga ricerca dell’artista. Nei lavori degli ultimi anni la pittura di Tiziano esplose, definitiva, come un movimento ascensionale, come una tempesta sacra.
Quella tela fu il suo testamento. Pervasa da un’aura di disfacimento, pare intrappolare il senso della materia che trasmuta: dalla vita alla morte, e viceversa. Un’opera gloriosa, disperata, d’argento e di cenere, di ascesa e di caduta. L’ultima, prima che la peste lo uccidesse, a quasi novant’anni.
Paola Angelini ha dipinto, in quest’esperienza quasi performativa, tele di diverse dimensioni e con diversi passaggi di forma e di stile, tutte in mostra – fino al 22 febbraio – alla Fondazione Bevilacqua La Masa, che ha sostenuto il progetto. L’immagine analizzata, introiettata e ripresa, si è evoluta giorno dopo giorno: dallo studio della struttura fino alla piena smaterializzazione, che sporge verso l’astrazione fra luminescenze aeree. Tanto che l’ultimo quadro prosegue, contraddice e libera la sua pittura precedente. È l’inizio di un fase nuova, al termine di uno strano rituale.
“A un certo punto ero talmente dentro il qudro che non lo vedevo più, lo conoscevo memoria”, racconta. “Conoscevo ogni dettaglio, ogni linea, ogni piano. Si trattava, a quel punto, solamente di dipingere. Di farne luce”. Rimane il movimento dei corpi, la geometria dei pesi e dei volumi, come impronte invisibili. Tutto il resto è un levitare di timbri e di lumeggiature, un pulviscolo color pastello, un’impermanenza necessaria. Scrollandosi di dosso la gravità di troppo. “Non vedevo più”. Una specie di iper visione, che coglie la retina nel mezzo della cecità. Sette giorni in viaggio tra l’occhio e lo spirito, sulle tracce di Tiziano. E l’ombra di lui, ancora per un po’, ad indicare la strada incontro alla pittura.
– Helga Marsala
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