Inpratica. Retorica della ripartenza e tempo nuovo (VI)

Quando diciamo che l’immaginazione del futuro e del nuovo risulta da tempo in Italia compromessa, stiamo in realtà riflettendo anche sulla sua immagine. Il fatto che nuovo e innovazione, nel nostro Paese, vengano di fatto da un po’ di tempo costantemente agganciati a oggetti industriali come l’iPhone non getta certo una luce particolarmente positiva sulla nostra predisposizione all’inatteso, all’inaspettato, all’imprevisto…

È un problema analogo a quello delle start up, che vengono solo da noi concepite soprattutto –  in sede di politiche di sostegno economico e industriale – come imprese tecnologiche. È questo un punto di vista chiaramente da terzo mondo: l’impresa culturale non è annoverata minimamente tra gli agenti di innovazione. L’innovazione è oggi, per definizione, tecnico-scientifica e mai culturale. Quali sono le radici di un tale disprezzo e sottovalutazione delle possibilità che la cultura ha di costruire sguardi nuovi sulla realtà?
Esistono almeno due ordini di problemi, in questo senso. Il primo ha a che fare con la nostra incapacità, divenuta ormai paurosamente strutturale, di uscire dagli schemi narrativi e interpretativi dati per raccontare la realtà in mutamento che abbiamo di fronte. La griglia è sempre la stessa: al massimo viene sottoposta occasionalmente a modifiche accessorie, ad abbellimenti e migliorie superficiali. Nulla intacca il racconto del mondo e della società così come è stato eretto nell’ultimo trentennio.
Questa narrazione funziona esattamente allo stesso modo di uno qualunque dei nostri quotidiani (con pochissime eccezioni): prevedibile dalla prima all’ultima pagina, prevedibile nel tono, nei contenuti e nel linguaggio. Non sono più previsti, da tempo ormai, pubblici e linguaggi differenti, plurali; la complessità è eliminata e soffocata dalla rappresentazione. Gli elementi più disturbanti, più estranei e dunque più interessanti ricadono costantemente fuori dal quadro di riferimenti: e quando sono inseriti al suo interno, vengono sistematicamente sterilizzati, resi impotenti.

Carlo Carrà, L'amante dell'ingegnere (1921)

Carlo Carrà, L’amante dell’ingegnere (1921)

Questo problema, che sembrerebbe a tutta prima confinato al territorio della comunicazione mediatica, ha avuto e continua ad avere conseguenze disastrose sulla percezione diffusa della realtà, del tempo, della storia, della cronaca. Una specie di nostalgia malsana e diffusa per ciò che ci ha condannati: un voler tornare indietro, o meglio, un non voler andare avanti a vedere quello che ci aspetta oltre il crinale. Per l’ignavia di sempre, mista alla paralisi e all’immobilismo che negli ultimi vent’anni si sono aggravati. Cronicizzati.
Così, anche le analisi e le interpretazioni si aggirano spuntate nel paesaggio di spettri che è diventata l’Italia contemporanea. Le macerie economiche e sociali ricordano da vicino il secondo dopoguerra (e anche questo è diventato già, con rapidità impressionante, un mantra): manca però del tutto, almeno per il momento, lo spirito della ricostruzione. La spinta della ricostruzione. Quell’entusiasmo e quell’energia impastati di disperazione, dell’aver nulla da perdere.
La realtà è lontana, viaggia distante, e non sembriamo in grado di afferrarla nemmeno per rigirarcela fra le mani. Figuriamoci per capirla. C’è una barriera, uno schermo – ancora, sempre – tra ciò che stiamo vivendo e ciò che ci raccontiamo. Tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Ricadiamo continuamente nel dominio, e nell’equivoco, della rappresentazione. La nostra passione per la “dissimulazione” – la distanza precisa e incolmabile tra ciò che affermiamo e ciò che facciamo, tra le nostre dichiarazioni e le nostre azioni, tra i nostri obiettivi presunti e i nostri comportamenti – ci sta fregando forse definitivamente.

Un iPhone rotto

Un iPhone rotto

Mentre i politici continuano a blaterare e a contendersi brandelli, spoglie, un intero sistema istituzionale (che già partiva da una condizione di fragilità estrema) va placidamente in frantumi. La maggior parte dei giornalisti si concentra sistematicamente sui dettagli più sbagliati, insignificanti e “fuori tempo”, perdendo di vista la gigantesca trasformazione in atto; per forza: addestrati in un’epoca frivola, l’angolazione da cui osservano è inutile – anche dannosa – per decifrare ciò che accade, o anche solo per ordinare gli elementi.
L’inadeguatezza dello sguardo è la cifra dominante. Gli eventi realmente importanti appaiono dunque senza senso, come razzi sparati in una notte di nebbia; quelli superficiali e impermanenti assumono una rilevanza sproporzionata, proprio perché costruiscono per una classe dirigente in preda alla depressione un’ultima barriera dietro cui rifugiarsi, pur di non affrontare direttamente i veri problemi e le difficoltà epocali. Meglio concentrarsi ancora, finché si può, sui siparietti e sull’eterna commedia delle parti: un’autentica ecolalia mentale e culturale che dall’esterno può sembrare asfissiante e psicotica, ma dall’interno ha il gusto zuccheroso della rassicurazione, della consolazione.

Christian Caliandro

 

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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