In memoria di Vasco Bendini. Il ricordo di Gabriele Simongini
Si è spento a Bologna il 31 gennaio, Vasco Bendini. Aveva 93 anni e ha avuto un ruolo fondamentale nella nascita dell’Informale, così come del poverismo e del concettuale. Qui lo ricorda Gabriele Simongini, che fra l’altro ha curato l’ultima grande mostra di Bendini, allestita al Macro di Roma.
“Essere artisti vuol dire: non calcolare e contare; maturare come l’albero, che non incalza i suoi succhi e sta sereno nelle tempeste di primavera senz’apprensione che l’estate non possa venire. Ché l’estate viene. Ma viene solo ai pazienti, che attendono e stanno come se l’eternità giacesse avanti a loro, tanto sono tranquilli e vasti e sgombri d’ogni ansia”. Vasco Bendini (Bologna, 1922-2015), ascetico e paziente, in ascolto solitario della propria vita interiore trasfusa come per miracolo direttamente in pittura, avrebbe condiviso queste riflessioni di Rilke. Sapeva che la propria via solitaria avrebbe avuto un prezzo, che sarebbe rimasta lontana ed estranea alle leggi ciniche del mercato ma anche alla pigra indifferenza di quasi tutte le istituzioni museali pubbliche, prive di coraggio e lungimiranza.
Eppure pochissimi artisti europei possono vantare come Bendini il primato di aver aperto la strada a due correnti pur molto diverse fra loro, lui che è stato pioniere dell’Informale italiano ma anche l’anticipatore di istanze poveriste e concettuali, nel 1966-67, con opere a cui è stata dedicata una mostra da me curata al Macro di Roma, due anni fa, coronata da una donazione al museo di due lavori importanti come La Scatola U e Cabina solare. Ma resta come una macchia indelebile che diventa emblema della pochezza culturale italiana l’impossibilità di organizzare una sua mostra antologica alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Fin dalle prove dei primissimi Anni Cinquanta, Bendini ha fatto affiorare una sorta di perentoria nudità spirituale che va molto più in profondità di quella fisica, comunque evocata nel frequente riferimento ai motivi del “volto” e della “figura”. E di lì in avanti questo mettersi a nudo si confronterà di volta in volta, lungo gli anni, con un rigoroso inventario dei mezzi espressivi pittorici, con l’ipotesi di informale come ultimo naturalismo posta da Arcangeli, con la dialettica materica e poi quella gestuale, con le opzioni oggettuali, comportamentali e poveriste, con nuove ricerche sul colore e via discorrendo. Ne emerge un’idea complessiva dell’arte come azione totale che va anche al di là del mediumpittorico.
L’unitarietà di fondo in un percorso che comunque riesce a dare stabilità e permanenza al dinamico flusso magmatico interiore sta proprio nel continuo disvelamento di una dimensione spirituale originaria che si è liberata di tutte le sovrastrutture e di ogni condizionamento. Lungo tutto l’itinerario creativo di Bendini, i segni e i colori recano con sé un soffio di vita (pneuma, avrebbero detto i greci e i latini), sembrano promanare direttamente dai polmoni e dall’anima dell’artista in una inscindibile totalità psicofisica che evoca anche una sorta di ineffabile respiro cosmico e universale dato dall’identificazione completa di spazio e luce.
Lo stesso Bendini ha precisato nel testo La pittura si immagina (1986) che i suoi quadri sono “la materializzazione del mio pensare, sentire, immaginare, intesa come un vero e proprio calco della gestazione di una serie di eventi della mia coscienza”. Attesa, concentrazione, feconda smemoratezza, silenzio, solitudine, nudità spirituale, sono alcuni elementi fondamentali per capire il percorso di Bendini e proprio oggi, in controtendenza, essi assumono una connotazione e una necessità profetica.
In un’intervista del 1999, l’artista aveva detto: “A me pittore, a me artista, resta solo un campo irraggiungibile con i mezzi tecnici attuali: il mio profondo. L’essere dell’invisibile o l’immagine del possibile. Come dire il non essere che libera l’essere”. Per l’artista bolognese tutto si è esplicitato inevitabilmente nel fare e Bendini recentemente mi confessava di essersi sempre sentito vicino a questa riflessione di Paul Valéry: “Non so, non posso sapere che cosa ho voluto dire, quello che so è che ho voluto fare”. Dipingere come stato profondo, autentico e irrinunciabile dell’essere.
Gabriele Simongini
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