Berlinale 2015. Il politico, il poetico e il nazionalpopolare. Cinquanta sfumature di cinema: da Greenaway a Taylor-Johnson
C'è il film anticlericale, quello contro l'omofobia, quello censurato dall'Iran: tanta politica alla Berlinale. Vedi Larrain o Greenaway. E poi c'è un "Cinquanta sfumature di grigio". Un triste esempio di cinema commerciale
Alla Berlinale piace politico, il film. Dall’Iran con Jafar Panahi e il suo simil-documentario proibito, alla denuncia di Pablo Larrain, in gara con El Club, attualmente il favorito per l’Orso d’Oro. Dopo Post Mortem il regista cileno lancia una pesante accusa alla Chiesa con un film che sta a metà tra Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pasolini e La grande abbuffata di Ferreri. Alla fine della kermesse arriva un’altra pellicola con forti connotati politici: l’Eisenstein in Guanajuato di Greenaway, che pianta una bandiera proprio nel centro del deretano della Russia omofoba. A 72 anni e con un carisma e un entusiasmo da vendere, il regista incanta la platea della conferenza stampa: applausi continui e risate, forma smagliante e buone possibilità di ritirare qualche premio.
Nel suo stile carico, barocco, tra il sacro e il blasfemo, Greenaway continua la sua indagine sulle potenzialità del linguaggio cinematografico, riportando alla luce una parentesi della vita di un regista fondamentale della storia e della teoria del cinema. Il progetto, accarezzato per un lunghissimo periodo, è arrivato finalmente al traguardo, ma come tutti i progetti di Greenaway, provocatori ed eccessivi, intellettuali e potenzialmente fraintesi (persino letti come pornografici), difficilmente vedrà distribuzione nelle sale, restando una perla visionaria buna per cineteche d’essai e cineforum.
In pasto alla massa arriva sul red carpet della Berlinale 50 sfumature di grigio, firmato dall’ex artista Sam Taylor-Johnson, convertitasi alla pellicola (dopo un film come questo solo un temerario la potrà considerare ancora un’artista). Del resto, dei sospetti sulla validità dell’operazione, dal sapore fortemente commerciale, si erano già insinuati quando – prima dell’inizio del festival – era stata annunciata l’assenza di attività promozionali per la stampa: nessuno incontro possibile tra giornalisti e membri di cast e produzione.
Ispirato all’omonimo bestseller, il film è il momento più basso del festival. E non c’è rumore mediatico, con l’annuncio di quasi tre milioni di prevendita nei mercati internazionali, che possa battere l’eloquente silenzio con cui gli spettatori della Berlinale hanno accompagnato i titoli di coda. Un film che si iscrive a pieno titolo nella categoria Grandi Marchette Nazionalpolpolari.
In questa edizione del festival quello che emerge in maniera chiara è l’enorme spaccatura tra i lavori di contenuto, troppo spesso elaborati secondo codici inaccessibili al livello medio della società, e la totale superficialità di confezioni internazionali dal forte appeal estetico, che sono solo deleterie per la cultura di massa.
In un’epoca strorica in cui i media regolano la vita delle persone, sempre più urgente diventa la necessità di un’educazione al linguaggio e alla scelta, operazione ad oggi non presa in gran considerazione da un sistema basato su principi – fallimentari – di mero profitto economico. Una politica che ostracizza i poeti, quando non siano loro stessi a isolarsi: proprio come fa German, altro grande protagonista di questa Berlinale, scegliendo una forma espressiva d’élite. In queste considerazioni ben si iscrive la poetica di Terrence Malick (in concorso con Knights of Cups): qual è il futuro di un mondo senza coscienza? Siamo già in piena distopia.
Federica Polidoro
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