Lus. Uno spettacolo di teatro, musica e arte
Un concerto per voce di Ermanna Montanari, contrabbasso di Daniele Roccato e live electronics di Luigi Ceccarelli, una poesia, un gorgo infernale: “Lus”, nuova produzione del Teatro delle Albe, ha debuttato al Teatro delle Passioni di Modena, per la regia di Marco Martinelli. Traducendo in uno straordinario alfabeto tutto nuovo un incontro già avvenuto diversi anni fa tra la voce della Montanari e il poemetto romagnolo di Nevio Spadoni.
Bêlda è una strega, una maga, una sciamana, spirito esile e furioso, materia incandescente che palpita, esplode, pervade, senza centro, né qui né lì, al punto di essersi ridotta a credere “di non esserci neppure tutta”; è sostanza sanguinante che abita nella sottrazione, nel nero, sul limitare del nulla, tra il vuoto e il mondo, sulla linea di confine, nella terra dei fantasmi.
Lus è la luce mancante e irrinunciabile, quella che lei sa immaginare dall’altra parte, nel di là che non si vede, il bianco che appare strofinandosi gli occhi con la rugiada del mattino. Bêlda, dal suo abisso nero, la invoca e la cerca, quella lus, in uno slancio di nostalgia, disprezzo e compassione, dentro e contro il buio della luce degli altri, di quelle disgraziate bocche comuni – così le chiamerebbe Cristina Campo – umane, solidali e consolanti, che di giorno la disprezzano e di notte rifugiano la loro disperazione nelle sue mani da guaritrice.
Compassionevole, non solidale, Bêlda – figlia di Armida, perpetua del prete del villaggio che ne fece disseppellire il corpo perché accusata d’esser stata una prostituta – non consola il dolore degli altri, lo assume su di sé, lo respira: da dentro a dentro; è tutta un dolore: lo ingoia fino a lasciarsi storpiare nel corpo, sfigurare, trasfigurare. Le ginocchia rigide, le gambe atrofizzate, distorte, instabili, il ventre contratto, in costante disequilibrio su un filo di luce che attraversa il praticabile bianco su cui si muove – una soglia, un confine, un luogo interiore, un taglio luminoso da conquistare incessantemente –, cercando la luce, fisicamente, per le sue mani, preziose, pericolose, magiche, e per il suo volto, spingendosi oltre il baricentro imposto dalle gambe. Invano: non può andare, eppure nulla la trattiene. Incatenata a una corda fragile che lei stessa intreccia al braccio, come resistenza da forzare, per esplodere, con la violenza della fatica, in un’invettiva furente contro il mondo, una maledizione, un maleficio contro quel prete che morirà di lì a tre giorni, una preghiera rivolta al cielo.
In questo eccezionale concerto tratto da un poemetto in lingua romagnola di Nevio Spadoni e diretto da Marco Martinelli, Ermanna Montanari dialoga con il contrabbasso di Daniele Roccato e i live electronics di Luigi Ceccarelli. Disorienta definitivamente se stessa. Con la voce invera, agisce, senza raccontarla, la distruzione radicale dell’idea di soggetto, la frantumazione del suo centro, la ricerca, dentro le ceneri di sé, di un centro altro, viscerale, eterno. I due musicisti esplorano questa dissolvenza, e la rifrangono, la moltiplicano, la sostanziano con una tempesta di colpi e crolli, echi, dissonanze, riverberi, lame affilate.
L’ostinato dell’ouverture di Roccato ci precipita in un non luogo, straordinario, inquietante; Ceccarelli raccoglie ogni incantesimo, ogni presagio, ogni rintocco dal profondo, e lo rilancia; destruttura il paesaggio psichico di Bêlda, lo smonta, lo rivela. I suoni – e tra questi le sue parole romagnole, crudeli, reali e soprannaturali, terrigne e misteriose – la esplorano, e insieme la toccano, letteralmente, come spilli che lei stessa cova dentro la gola, e la testa, e che a lei tornano per ferirla. Sprigionano grovigli e macchie di colore, grumi di sangue, e deturpano volti dipinti sul fondo, sciogliendo gli acquerelli proiettati di Margherita Manzelli.
Lus non è narrazione, è un concerto, una poesia, un momento di negatività, di assenza, di non separatezza, in cui non vi è più alcuna differenza tra dentro e fuori, in cui un moto dell’anima pare muovere gli alberi, e gli alberi fare ombra all’anima stessa, in cui il dolore informa i rumori e i rumori provocano ferite. La poesia non consente menzogna, non prevede finzione, raddoppiamento sbiadito di realtà: ogni parola, ogni immagine, ogni simbolo, ogni costruzione, è un significante che veicola una rivelazione, uno slancio, una dolorosità gioiosa dell’esistere, personalissima, intima: Ermanna Montanari immerge infine e disperatamente tutto il suo volto nella luce, sul finale, prima di lasciarsi inghiottire dal buio. Lo spettacolo finisce così, con lei che nel nero ci sembra mancante e insieme monumentale.
Rossella Menna
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