Biennale di Venezia. Il padiglione della Turchia raccontato da Sarkis
Tra arcobaleni, specchi e note sospese, il grande artista concettuale di origini armene Sarkis rappresenterà la Turchia alla 56. Biennale di Venezia. All’Arsenale la sua potente consapevolezza visiva si compirà come una ricerca sulle origini, sui primordi della luce.
Curata da Defne Ayas e coordinata dall’Istanbul Foundation for Culture and Arts (İKSV), un’installazione dell’artista concettuale di origini armene Sarkis (Istanbul, 1938) rappresenterà il progetto-vessillo della Turchia, nel Padiglione nazionale atteso alla 56. Biennale d’Arte di Venezia. Il 10 febbraio la curatrice, in conferenza stampa, ha annunciato: “Con questa installazione torneremo indietro all’inizio del tempo, al primo arcobaleno, quando la luce irruppe nel mondo per la prima volta”. Artribune ha intervistato l’artista per comprendere meglio questa premessa all’apparenza criptica.
Perché hai scelto una parola italiana, Respiro, per il “tuo” padiglione alla Biennale di Venezia?
Il titolo rappresenta un mio dono a Venezia. Perché, altrimenti, essere sempre legati, o relegati, a limiti territoriali? Sto infatti lavorando a un’installazione che raggiunge una dimensione nascosta, appena oltre l’immediatezza, puntando dritto alla creazione del nostro universo. È aperta a tutte le culture, le religioni e i credo di tutti i Paesi. Respirare ed espirare, nonché portare luce: queste sono le mie motivazioni, quando lavoro su idee che instaurano un infinito dialogo. La loro trasformazione dà forma al cuore del mio lavoro.
Ho intenzione di raggiungere e oltrepassare ogni barriera geopolitica per realizzare un contesto in espansione, un ampliamento ultramillenario che però torna alla creazione dell’universo e agli inizi del tempo, al punto in cui comparve il primo arcobaleno – il primo vero, magico punto di rottura della luce. Non è mai necessario legare noi stessi a una specifica istanza, creata dalle visioni di politici, religioni, filosofie e arti.
Come sarà strutturata la tua installazione?
Ho creato due neon-installazioni giganteschi che rappresentassero lo spazio del respiro nell’arco dei 500 mq del Padiglione. Queste aperture rappresentano due enormi arcobaleni, i cui raggi colorati sono posizionati come a rappresentare una sorta di Big Bang e così si trasformano in qualcosa di inatteso. Inoltre due grandi specchi dividono lo spazio riflettendo gli arcobaleni.
Sette bambini lavoreranno su queste superfici specchianti per creare disegni a forma di galassie, attraverso sette colori che loro applicheranno attraverso l’uso delle impronte digitali.
Che rapporto c’è fra il tuo lavoro e il luogo in cui è allestito?
Ho sempre prestato molta attenzione ai luoghi nei quali sono state installate le mie mostre: la loro storia, la loro architettura, la memoria, i contesti e anche il tempo organizzativo che queste scandivano. In questa occasione, il luogo deputato coincide con il Padiglione turco a Venezia, all’Arsenale, in uno spazio dall’elevata unità e densità architettonica, proprio al piano superiore rispetto al Padiglione del Vaticano.
Come descrivere l’inserimento, nella tua installazione, dell’intervento di Jacopo Baboni-Schilingi?
La sua composizione musicale creata specificamente per questa mostra risuonerà giorno e notte senza interruzione. La partitura è basata su un mio disegno dell’arcobaleno. I raggi respiranti dell’arcobaleno di neon continueranno a riempire lo spazio del padiglione anche dopo la chiusura al pubblico. Trentasei dei miei mie lavori – immagini create con vetri colorati – saranno inoltre appese nel vuoto, in quello stesso spazio, rappresentando diverse culture e diversi Paesi.
Partecipi anche al Padiglione dell’Armenia. Questa doppia presenza crea una sorta di ambivalenza di ruolo tra i due Paesi?
Per oltre quarant’anni il mio lavoro si è aperto in crescendo a tutte le culture e a tutti i credo, così come alla scienza, alla filosofia, alla musica, all’architettura e alla storia della creazione del nostro mondo, per cercare di determinare come noi percepiamo, come noi sentiamo e quali segni ci hanno marchiato a partire da quei primordi. Sono sempre intento a capire come personalizziamo ed esprimiamo tutte queste sensazioni. Il mio obiettivo è di espandere il terreno, il territorio talvolta angusto dell’arte. Sono conscio del fatto che non ci sia un precedente in questo e che noi siamo sempre e comunque i primi a compiere il nostro destino.
Che cosa ne hai pensato durante il primo sopralluogo alle Sale d’Armi?
Le Sale d’Armi non sono uno spazio vivente, o meglio vivibile, perché sono state purificate dalla loro funzione e sono diventate un momento espositivo. Esistono solo per essere messe in mostra ed è come se dicessero: “Io esisto, ma non potete scalfirmi”, perché è vietato piantare anche un solo chiodo alle pareti, a meno che, ovviamente, non lo si cicatrizzi, come risanando una sorta di ferita. E ogni volta che si espone, bisogna quasi accarezzarne i muri. Questa è l’impressione che ho avuto.
E quindi come interverrai?
Sul soffitto ci sono travi di legno, che sono le uniche superfici sulle quali si possono effettivamente sospendere i lavori, che ovviamente non devono rivelarsi troppo pesanti.
Ti racconto un aneddoto. Tre anni fa sono stato invitato a disegnare gli arredi e scenografie per il Riccardo II che veniva messo in scena ad Avignone. Il palco era proprio sotto la Corte dei Papi. C’era un enorme muro e tutti gli autori chiamati a decorarlo vi apposero qualche elemento, così dovetti escogitare un piano anch’io, pur non amando affatto i decori. A distanza ho inviato l’idea di una sorta di membrana che avrebbe dovuto apparire come vivente, cominciando a vibrare. Quando Riccardo II approcciava la scena della propria morte, quella sorta di seconda pelle avrebbe dovuto cominciare a vibrare e a invecchiare, ad aggiungere rughe in superficie. Inoltre avevo posto un largo tronco di circa 20-24 metri la cui punta stava cominciando a bruciare. Tutto qui: non avevo toccato nient’altro.
Allo stesso modo dovrò comportarmi anche all’Arsenale. Il lavoro diventerà una sorta di decorazione vivente. La situazione diventerà un atto di trasformazione e lo spazio una landa fertile.
Visivamente, di cosa faremo esperienza?
Avendo l’intenzione di rilevare tutto quel che è represso e compresso, sto provando a spalancare tutte le possibilità dello spazio. Ho pensato molto a come divaricare uno spazio su così ampia scala, un vuoto in cui pensare, amare e soffrire proprio durante il processo della sua trasformazione. Questo è il metodo con il quale ho lavorato: penso a un progetto su larga scala e poi lo spingo verso i suoi limiti, fino a farlo svanire. Poi aspetto che mi ritorni, oppure che non si presenti più alla mente. Se l’idea emerge di nuovo, la allontano, compiendo questa operazione molte volte.
Per la Biennale quel che mi è capitato di vedere e, dunque, quel che si è fermato in mente è stato l’arcobaleno, immagine che sarà esposta in mostra. Sono molto affascinato dai punti critici, dai punti di rottura, dalle soglie. Nell’arcobaleno che sto realizzando, i colori improvvisamente si interrompono. E ho iniziato il mio lavoro proprio a partire da questa interruzione. Nel film di Tarkovsky, Andrei Rublev, si vede un massacro nel quale fratelli colpiscono a morte altri fratelli. Dopo questo incidente, il pittore Rublev è portato al silenzio e smette completamente di disegnare. Qui lo sforzo di Tarkovsky è di mettere in scena direttamente la storia dell’umanità, nel momento in cui ha deviato. A dire il vero non mi sento troppo lontano dal seguire questa attitudine. A Venezia, in quel meraviglioso spazio sarà posto proprio al centro uno specchio a due facce. Attraverso di esso saranno posizionati arcobaleni al neon e questa installazione, nel suo complesso, all’unisono respirerà.
Quale sarà la consonanza fra Respiro e All the World’s Futures?
Ho già lavorato con Enwezor in precedenza e non rimarrei sorpreso se esistessero già da tempo assonanze che potrebbero venire rivelate proprio in Biennale.
Potresti esprimere un pensiero o formulare un invito che accompagni i visitatori al Padiglione turco?
Mi auguro solamente che pensino in maniera soave e che abbiano speranza. Che non si lascino consumare dalle code, dagli sponsor, o da quel che si manifesterà come violento o aggressivo. Che non abbiano fretta, che si lascino pervadere da tutto.
Ginevra Bria
http://www.iksv.org/en/biennialofvenice
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