Biennale di Venezia. Il padiglione del Brasile raccontato da Luiz Camillo Osorio
Tre artisti, tre generazioni e tre pratiche artistiche “contro”. Luiz Camillo Osorio, il curatore del padiglione del Brasile alla Biennale di Venezia 2015, descrive non solo il progetto espositivo, ma anticipa le tematiche che rimarcheranno le differenze, sul corpo, tra difesa e fragilità, tra politica e controllo espressivo.
Forse la scattosa brutalità della struttura architettonica del Padiglione del Brasile servirà a conferire ancora maggior forza alla mostra dal titolo È tanta coisa que nem cabe aqui. Il curatore del padiglione, Luiz Camillo Osorio, ha selezionato tre artisti di generazioni diverse per instaurare un dialogo sulla libertà d’espressione, attraversando non solo la scena dell’arte contemporanea internazionale, ma soprattutto il manto politico e sociale che riveste ogni lavoro dei tre. Andrè Komatsu (1978), Antonio Manuel (1947) e Berna Reale (1965) ricostruiranno, intersecando piani di contrasto e linee temporali differenti, una mostra dedicata alla repressione causata dalla dittatura sul finire degli Anni Sessanta. Qui Luiz Camillo Osorio racconta il percorso che ha compiuto assieme ai tre artisti.
Quali concetti, nozioni o pensieri evoca È tanta coisa que nem cabe aqui?
Il titolo è una citazione tratta da uno dei poster che occupavano le strade in Brasile nel 2013, durante le proteste e le manifestazioni politiche. Una delle caratteristiche originali di questi atti dimostrativi è stata la proliferazione di cartellonistica: c’era quasi una frase per partecipante, come se ognuno stesse performando e incarnando la propria specifica richiesta per mezzo della loro ostensione.
Ho immaginato quelle scritte come se fossero state una sintesi di generale malcontento, una voce di dissenso che collettivamente stesse urlando, in maniera scritta e condensata: “C’è così tanto qui da sopportare che tutto, proprio qui, non ci sta più”. Questa sorta di lamento è davvero molto presente in gran parte dell’arte contemporanea brasiliana, a partire dagli anni oscuri della dittatura. E anche se questa voce ribelle, con le decadi, si è trasformata, risulta ancora oggi un elemento importante nell’energia politica ed estetica prodotta dai lavori di Manuel, Reale e Komatsu.
Come sarà strutturata la mostra?
Ci saranno video e installazioni che ci confronteranno con diversi aspetti della società brasiliana, aspetti che possono essere notati quotidianamente e che rappresentano una sorta di fenomeno globalizzato. Fra di essi: l’esclusione e le divisioni sociali, le barriere fisiche e mentali, gli steccati e le protezioni innalzate verso l’Altro da sé, la paura dell’interazione pubblica ecc.
Tutti e tre gli artisti riprodurranno un paesaggio trasformato rispetto a quello dal quale hanno tratto ispirazione. Infatti, le tematiche che hanno fatto proprie saranno rappresentate secondo territori non-illustrativi, molto poeticamente e anche molto criticamente.
Qual è la tua personale visione/definizione di fragilità? Quante diverse debolezze possono esistere o coesistere? E come possono essere rappresentate al meglio?
Il corpo nudo è sempre sinonimo di fragilità e il dissenso è sempre una forte forma di nudità, proprio come quando l’opera d’arte dissemina la propria singolarità senza essere supportata e protetta dalle convenzioni istituite e dai codici. La fragilità può essere presente e rappresentata attraverso diversi media. La domanda principale che bisogna porsi è come l’esperienza del lavoro possa aprire le menti e offrire un’esperienza che segni, che trasformi il modo di vedere, di percepire e di vivere.
Come emergerà la memoria del conflitto?
La memoria del conflitto si manifesta quando una barriera o uno steccato comprime il tuo corpo (come nel caso dei lavori di Komatsu) oppure quando un muro blocca i tuoi movimenti (come succederà per il lavoro di Manuel). Ma non è solo una questione di venire a patti con la memoria: si tratta anche di necessità, del bisogno di immaginare vie di fuga che oltrepassino i confini imposti dagli steccati, dalle pareti, dalle barricate, dall’esclusione e dalla disuguaglianza.
Quale tipo di scenario visivo o di atmosfera culturale si incontrerà al Padiglione del Brasile?
Abbiamo cercato di ricreare uno scenario poetico e perfettamente critico, all’interno del quale ogni visitatore sarà portato non solo a confrontarsi con la realtà, ma sarà anche invitato a trasformarsi e a modificare quell’ambiente. Ritengo che ci sia sempre la possibilità di aprire una breccia, un buco nel muro.
La storia e l’estetica architettonica del Padiglione attiverà un dialogo con i lavori dei tre artisti?
Il Padiglione brasiliano è caratterizzato da un’architettura concreta e brutale che rientra esattamente nel nostro repertorio estetico e visivo, il che significa, in un certo senso, che quella tipologia di struttura è stata ereditata e verrà ritrasformata dalle poetiche degli artisti. In un certo senso, anche questo è un paesaggio che loro hanno attraversato.
Quale tipo di esperienza faremo in mostra?
Quando si attraverserà il Padiglione, si verrà affiancati da una pellicola del 1975 di Manuel, assieme a forti immagini d’archivio collezionate attraverso i giornali di cronaca che pubblicavano l’iconografia di disordini sociali violenti e persone uccise. Poi ci sarà un video di Reale del 2013 all’interno del quale lei corre in una prigione brasiliana tenendo alta la fiamma olimpica. Attraverso questi due esempi vorrei solo dare un’impressione, un’immagine della tipologia di dialogo che ho voluto proporre.
In quale senso la mostra all’interno del Padiglione brasiliano rifletterà sui temi di All the World’s Futures?
Bisogna essere sempre in grado di immaginare e creare molteplici futuri per il mondo. Bisogna saper giudicare e sapere farsi sedurre da essi allo stesso tempo, realizzando il nostro futuro come una costruzione collettiva e in competizione, come una terra a venire che non ci è stata conferita alle origini. Tutto questo scenario dobbiamo essere in grado di immaginarlo e produrlo assieme, proprio come Komatsu, Manuel e Reale stanno facendo.
Potresti esprimere un pensiero, un augurio che accompagni i visitatori al Padiglione?
Mai dimenticarsi che viviamo tutti nello stesso mondo e che la libertà deve essere sempre esercitata e deve avere lo spazio necessario per essere produttiva.
Ginevra Bria
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